Via Pascarella angolo via Trilussa, piove a dirotto, l’auto è ferma davanti alla pizzeria Rim, il guidatore è reclinato sul lato passeggero. Ammazzato con quattro colpi di calibro 12. Si chiama Pasquale Tatone, campano di Casaluce. Mestiere: trafficante. E’ il 29 ottobre 2013. A Quarto Oggiaro torna il far west. Pasquale è il terzo morto in due giorni. Prima di lui è caduto il fratello Emanuele e un altro piccolo pregiudicato. Il 4 dicembre 2013 la squadra Mobile arresta Tonino Benfante detto Palermo. Secondo la ricostruzione degli uomini diretti da Alessandro Giuliano, Benfante ha fatto tutto da solo per un movente tanto banale da apparire assurdo: vecchi risentimenti nei confronti dei Tatone. Più convincente lo scenario della droga. A che livello? Basso, anzi bassissimo, viene ripetuto dagli inquirenti. Poche bustine, qualche grammo, roba minima. Caso chiuso, dunque.

Ora, però, l’inchiesta Pavona 4 coordinata dal Ros di Milano e dal pm Marcello Musso racconta molto di più non sul fronte specifico del triplice omicidio, ma certamente sugli equilibri criminali degli ultimi sei anni a Quarto Oggiaro. Alla base di tutto non ci sono ricostruzioni arbitrarie degli investigatori, ma le intercettazioni che fissano, meglio di qualsiasi altro strumento, il dato di realtà. Si parte allora da un elemento oggettivo: in quel 2013 i Tatone non rappresentano solo un piccolo gruppo familiare di spacciatori, ma i veri reggenti di tutta la cocaina che passa in quartiere. Loro hanno il potere per decisione suprema di Biagio Dentino Crisafulli, da sempre monarca assoluto di questo quartiere a ovest di Milano. Quello dei fratelli Banderas (Tatone, ndr), come vengono soprannominati nelle intercettazioni, è un giro milionario tanto che il gip Stefania Donadeo, accettando la richiesta del pm, oggi ha chiesto l’arresto per Mario Tatone, il più vecchio dei fratelli, non certo per spaccio ma per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga. Accusa che sarebbe piovuta addosso anche a Emanuele e Pasquale se, come scrive il giudice nell’ordinanza, “non fosse intervenuta la morte del reo”.

Così per comprendere lo sfondo sul quale nell’autunno 2013 si consuma la vendetta di Benfante, bisogna tornare indietro di sei anni. Nel 2007, Dentino Crisafulli finisce di scontare il suo ottavo anno di galera, davanti ne ha ancora tanti. Dal carcere di Sulmona viene trasferito a Opera e messo in cella con il fratello Alessandro. Qui le microspie macinano ore di colloqui. Emerge che i Tatone costantemente inviano dei vaglia postali in carcere ai fratelli Crisafulli. Alessandro racconta a Dentino di aver incrociato in carcere Emanuele Tatone il quale gli dice: “Oh, a posto è arrivato il vaglia”. La cosa preoccupa molto Crisafulli perché se gli investigatori capiscono, per loro “è finito tutto e non si esce più”. Non solo. Il fratello di Dentino racconta che sua moglie è stata fermata in piazza da Nicola Tatone. “Gli ha detto, guarda sei al corrente che noi ti mandiamo i soldi”. La donna, però, risponde: “Io non so niente e non voglio sapere niente”.

Per gli investigatori il dato è chiaro: i Tatone governano Quarto Oggiaro, perché così ha deciso Biagio Crisafulli. Il boss, che per tutti gli anni Ottanta ha tenuto rapporti con ‘ndrangheta e Cosa nostra, ha scelto loro, decidendo di cacciare un altro gruppo storico, quello che da sempre fa capo a Francesco Castriotta, detto Gianco, latitante dal 2010 e storico alleato di Crisafulli, tanto che entrambi, come tanti altri personaggi, nel 1994 finiscono nell’inchiesta Terra Bruciata coordinata dalla Dda di Milano. Col tempo, però, le cose cambiano. E gli alleati di un tempo, i compari con cui una volta Dentino faceva grandi affari, non sono più affidabili. Singolare che la scelta del boss finisca sui Tatone per anni considerati degli “infami” dal direttivo mafioso di Quarto Oggiaro. “Siamo consumati”, dirà Castriotta. Così in quel 2007, la decisione di Crisafulli viene definita “una brutta notizia” da Gianco. Un anno primo in via Pascarella, qualcuno aveva attentato alla vita di suo fratello Vincenzo. Da quel momento Castriotta gira al largo da Quarto Oggiaro. Però, vuole capire. L’occasione giusta è l’uscita dal carcere di Luigi Giametta, altro vice re di Dentino. Giametta così raccoglie i dubbi di Castriotta e li riporta a Lucia Friolo, moglie di Biagio Crisafulli. La donna annota e consegna il quesito in carcere dal marito. Pochi giorni dopo Giametta torno con il responso. Dice Castriotta: “Ha mandato a dire di non rompere i coglioni, li ha messi lui (Crisafulli, ndr), lui ha dato il potere (ai Tatone) e tutto quanto. Tutto per che cosa? Per quattro piccioli compare …”. Sì perché alla base della scelta del boss c’è il fatto che Castriotta, a suo dire, non avrebbe passato la percentuale dovuta. Sotto accusa, secondo la ricostruzione del pm, non c’è solo Gianco ma anche Giordano Filisetti, detto baffo tingiuto, sul quale la parola della moglie del boss è ben chiara: “Non conta un cazzo, baffo tingiuto non conta un cazzo, quando viene a casa vedete che fine fa”. Insomma Gianco non la prende certo bene e con il suo interlocutore spende parole di fuoco contro i Crisafulli: “Ho bruciato la mia vita per voi e guarda come mi avete voltato le spalle per quattro cagate lire di merda, ma che infami siete? Ma ti giuro compagno, tra qualche giorno scoppio, ma lo sai quante gliene devo dire a quella zoccola di merda”.

La decisione del boss è irrevocabile. E mentre Castriotta cova la vendetta, Dentino dà mandato a Domenico Palazzolo, siciliano di Terrasini, detto Mimmetto, di sovraintendere al lavoro dei Tatone, perché, dice il boss nel 2007, “è l’unico di questa banda, che si comporta bene, che fa quello che gli viene detto, lo fa in una maniera corretta, Mimmo m’è vicino”. E’ lui l’occhio del boss sul quartiere. In quel periodo poi è tornato libero Francesco Crisafulli. Il terzo fratello non sembra, però, avere il carisma adatto. Il rispetto in quartiere gli deriva dal cognome non da altro. Sarà ucciso nel 2009 davanti al bar Quinto in via Pascarella. Fino a quel momento la sua è una reggenza di facciata. Chi comanda è Palazzolo, il quale, dopo un bel po’ di galera, torna libero è va a vivere in una residenza borghese a Novate Milanese. “Io – dice – per tutti sono invisibile, lì mi rispettano, non capiscono chi cazzo sono”.

Palazzolo appare fin da subito come un personaggio di rilievo: concreto, duro, determinato. “Io – dice – questo lavoro lo so fare e tutti devono fare quello che diciamo noi e basta, appena il primo che viene dice, non e’ tanta buona, sei licenziato. non vuoi lavorare con noi? Vai a fare in culo!!! Non gliene frega un cazzo della roba, finiamola con queste barzellette, non e’ vero, io ho venduto l’eroina ai tossici che non gli faceva niente, stavano zitti”. Quindi ecco il piano a breve termine: “Li dentro, prima o poi, dobbiamo averla solo noi”. In macchina con Franco Crisafulli, Mimmetto elargisce consigli. Primo fra tuti “non farsi vedere in quartiere” e fare come faceva suo fratello Biagio “trent’anni fa che andavano lì alla trattoria Cagnola in mezzo a tutti i vecchietti a mangiare”.

Palazzolo, dunque, segue gli ordini di Dentino. Tra questi c’è quello di agganciare i Tatone. Mimmetto parla sia con Pasquale che con Nicola Tatone. Il ragionamento è questo: “Voi qui spacciate da vent’anni e siete arrivati al punto di poterlo raccontarlo” perché “tutti quelli che hanno fatto i pezzi di merda, hanno fatto i soldi, o sono in galera, o sono morti, o sono latitanti…”. Quindi la proposta: “Io quando ero ragazzo avrei sempre voluto che voi lavoraste per noi, vi davamo mezzo quartiere e vendevate per noi” perché “ricordatevi che passa un anno, passano venti anni, ognuno arriva al posto che si merita o ha quello che si merita, noi è vent’anni che spacciamo, vent’anni che combattiamo e siamo qui, a parlare, a ridere a scherzare”. Palazzolo prosegue nel racconto: “Gliel’ho detto: Pasquale, Nicola, io sono venuto da te quando c’era la fame e t’ho detto: Pasqua’, dobbiamo lavorare insieme. Io sono venuto da Nicola e ho detto: Nicola, vogliamo lavorare insieme? sono venuto? L’abbiamo fatto? Allora ragazzi è questo che conta non contano le vecchie ripicche”. Mimmetto parla sempre per conto dell’organizzazione: “Vedi che io con te non l’ho mai avuta, non l’ha avuta mai con te Gino, vi abbiamo sempre ammirato perché siete dei ladri, dei delinquenti, degli assassini”. Quindi ribadisce il concetto: “Gino di te ha avuto sempre stima, altrimenti io non ero qui a parlare con te”. Ecco, allora, in presa diretta l’accordo criminale che nel 2008 sancisce l’uscita di scena di Castriotta in favore dei Tatone che, dice Palazzolo, “sono bravi ragazzi però hanno bisogno di una guida, di uno come me che dice: non ti fare vedere, levati questa macchina, vai piano che c’hai i figli”. Insomma, i fratelli Banderas ora hanno il potere. Pasquale Tatone è quello che “ha il potere decisionale”, e mentre Nicola è “azionista”, nel senso che se c’è da andare a sparare non si tira indietro, mentre Mario Tatone “c’ha la visualità di malavita quella più ampia…”.

Nel 2009, il commissariato di Quarto Oaggiaro, all’epoca diretto da Angelo De Simone, mette a segno l’operazione Smart. In carcere finisce Nicola Tatone e un bel gruppo di cavallini. Gli arresti non fermano il traffico. Gli assetti non mutano. Fino all’autunno 2013 quando Nino Benfante uccide. E fa tutto da solo. Questa la versione ufficiale. Certo la storia criminale di Milano racconta che Benfante, Castriotta, Giametta e Filisetti da sempre hanno fatto batteria insieme sotto il regno di Crisafulli. Non solo, nei giorni successivi alla morte di Pasquale Tatone, il collaboratore di giustizia Carmine Venturino invia una lettera al procuratore aggiunto Alberto Nobili nella quale si dice certo che la decisione di sterminare i Tatone sia arrivata da uomini d’onore. 

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