Quando ieri i vertici Ilva/Italsider sono stati condannati per l’amianto, ho avvertito dentro di me la fiducia che ce la potremo fare anche nel nuovo processo Ilva. Se riusciremo a disinnescare i pericoli contenuti nel disegno di legge sui reati ambientali, la giustizia farà il suo corso.

Taranto sta diventando il banco di prova nazionale della giustizia ambientale. Ed è il laboratorio sociale di una lotta che ha messo assieme la passione civile e la competenza scientifica. A Taranto la diossina ha contaminato per anni il territorio e il mare senza che nessuno dicesse e misurasse nulla. Ancora oggi gli enti locali – dal Comune alla Regione – non hanno messo nero su bianco chi è stato ad inquinare i pascoli e i quartieri.

Nel quadro desolante di questi anni sono stati i cittadini a riempire il vuoto delle istituzioni e a sostituirsi alla loro ignavia che a volte è sconfinata nella complicità con gli inquinatori.
Nel 2008, mentre la Regione non aveva portato in Procura alcun dato utile ad avviare le indagini, PeaceLink forniva i primi dati della contaminazione della catena alimentare. Da lì è partita l’inchiesta che sta per trasformarsi nel più grande processo nazionale per disastro ambientale.

Vorrei raccontare un retroscena di questa storia. La prima perizia ordinata dalla magistratura per individuare la fonte della contaminazione da diossina è stata un flop. La perizia “assolveva” l’Ilva o per lo meno non dichiarava esplicitamente che fosse la fonte inquinante. Chi l’ha coordinata è ora finito sotto inchiesta per accertati contatti con l’Ilva. La Procura ha dovuto far pedinare un suo perito.
Ebbi allora il sentore che saremmo stati sconfitti se non avessimo preso l’iniziativa e se tutto fosse rimasto nelle sole mani dei primi esperti della Procura.

Gli attivisti di PeaceLink e dell’AIL (Associazione Italiana Leucemie) di Taranto decisero di incontrarsi con gli allevatori e di passare all’azione. Nacque così la decisione degli allevatori di diventare nostri alleati.

A guidarli fu Vincenzo Fornaro, un giovane dalle idee chiare e molto combattivo.
Grazie a lui si costituirono parte offesa nell’incidente probatorio. Noi li aiutammo a disporre dei dati decisivi per ribaltare la prima perizia che aveva “assolto” l’Ilva.
Vincenzo Fornaro presentò così una perizia di parte, firmata dal dottor Stefano Raccanelli, uno dei chimici italiani più esperti in diossina. Quella perizia diceva chiaro e tondo che la diossina che aveva contaminato i pascoli proveniva dall’Ilva. 

La Procura sostituì i primi periti (due dei quali sono stati indagati) e ne nominò degli altri che giunsero alle stesse conclusioni della perizia firmata dal dottor Stefano Raccanelli e presentata in tribunale da Vincenzo Fornaro.

A Fornaro, le cui pecore e capre erano state abbattute perché contaminate da diossina, va il merito di aver rappresentato nell’incidente probatorio la volontà di riscatto di un’intera comunità. I dati raccolti erano così schiaccianti che gli esperti dell’Ilva non li hanno neppure contestati nel contraddittorio, come pure era loro diritto.
Vincenzo Fornaro sta oggi lottando per riconvertire la sua masseria piantando canapa nell’ambito di un progetto scientifico di disinquinamento.
Quando ripenso a questa lotta, fatta di chimica e di passione civile, coltivo la concreta speranza che la sentenza di ieri sull’amianto sarà replicata nel nuovo processo sulla diossina. Ieri per l’amianto, oggi per la diossina.
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