Magari La Grande Bellezza si accontentasse di essere un brutto film. È piuttosto “un’esperienza emotiva inedita”, come ha scritto Walter Veltroni sul Messaggero di ieri.

Parte come film inspiegabile finché, mentre cerchi invano una spiegazione, non ti accorgi che è pure inguardabile, una specie di paradosso visivo considerata la bravura di Sorrentino con la macchina da presa. Ma tutti quei movimenti di macchina, quei piani sequenza mimetici e sinuosi come le spire di un boa, quei primi piani intenti a stanare la mostruosità del quotidiano e l’ambiguità della bellezza, si rivelano altrettanti vicoli ciechi.

Chissà che bel film avrebbe potuto fare Sorrentino se avesse coltivato ambizioni meno sbagliate, se non avesse vagato nel vuoto dell’ispirazione fingendo di passeggiare per Roma, se non avesse fatto ruotare il soggetto sullo scrittore di un solo romanzo che osserva la vanità del mondo con sguardo malinconico e assente, come l‘Uomo in frack di Modugno, se non avesse gonfiato la sceneggiatura di banalità come il viso di Serena Grandi è gonfio di botulino.

Dice che Sorrentino ha rifatto La Dolce Vita. Contento lui. Ma a parte il fatto che il passato non lo replica nemmeno il Grande Gastby, La Dolce Vita è entrato nella storia perché fu un corto circuito tra l’immaginazione di Fellini e una Roma vera, viva, esagerata, in un certo senso già felliniana di suo. I paparazzi e i divi c’erano davvero, gli scrittori di talento che si dissipavano e lavoravano per il cinema pure (a proposito: anche il cinema italiano c’era davvero), e in via Veneto ci andava perfino Scalfari.

Il Marcello della Dolce Vita è al tempo stesso un alter ego, un fantasma e un carattere tratto dalla realtà di quegli anni. Metà ombelico e metà cronaca. Jep Gambardella, che si aggira una botta e via tra terrazze, performance, spogliarelliste, cardinali e sante, è una creatura che trasuda cattiva letteratura da ogni basetta, in questo più vicino al peggior Antonioni che al miglior Fellini. Solo in un caso, tra le tante sentenze di cinico che si fa trombone, la dice giusta: “Non mi accontentavo di andare alle feste, volevo il potere di farle fallire”.

Se il buon cinema è una festa, bè, quel potere ce l’ha davvero.

 

il Fatto Quotidiano, 29 maggio 2013

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