Il Consiglio di Stato ha bocciato il decreto del Tesoro per l’applicazione dell’Imu sugli enti non commerciali, e quindi anche sulla Chiesa. Il decreto, secondo Palazzo Spada, in molte parti “esula” dalle competenze che erano state affidate dalla legge.

Il ministero dell’Economia, con il decreto sull’Imu per la Chiesa, è praticamente andato oltre i poteri regolamentari che gli erano conferiti espressamente dalla legge. Ora il Tesoro dovrà rispondere entro fine anno dal momento che la legge prevede il via alla applicazione dell’imposta dal primo gennaio 2013.

“Trattandosi di un decreto ministeriale – si legge nel parere – il potere regolamentare deve essere espressamente conferito dalla legge e, di conseguenza, il contenuto del regolamento deve essere limitato a quanto demandato”. Deve invece “essere rilevato – fa notare il Consiglio di Stato – che parte dello schema in esame è diretta a definire i requisiti, generali e di settore, per qualificare le diverse attività come svolte con modalità non commerciali. Tale aspetto esula dalla definizione degli elementi rilevanti ai fini dell’individuazione del rapporto proporzionale in caso di utilizzazione dell’immobile mista ‘c.d. indistinta’ e mira a delimitare, o comunque a dare una interpretazione, in ordine al carattere non commerciale di determinate attività”. E ancora: “L’amministrazione ha compiuto alcune scelte applicative, che non solo esulano dall’oggetto del potere regolamentare attribuito, ma che sono state effettuate in assenza di criteri o altre indicazione normative atte a specificare la natura non commerciale di una attività”.

Il Consiglio di Stato tuttavia non solo critica il fatto che il ministero abbia “esulato” dalle proprie competenze regolamentari ma anche “l’eterogeneità” dei criteri utilizzati per le convenzioni con lo Stato per le attività erogate dalle onlus in campo sanitario, culturale o sportivo. Per stabilire i criteri di convenzione, si legge nel parere del Consiglio di Stato, “in alcuni casi è utilizzato il criterio della gratuità o del carattere simbolico della retta (attività culturali, ricreative e sportive); in altri il criterio dell’importo non superiore alla metà di quello medio previsto per le stesse attività svolte nello stesso ambito territoriale con modalità commerciali (attività ricettiva e in parte assistenziali e sanitarie); in altri ancora il criterio della non copertura integrale del costo effettivo del servizio (attività didattiche). Non è questa la sede per verificare la correttezza di ciascuno di tali criteri, ma la loro diversità e eterogeneità – fanno notare i giudici – rispetto alla questione dell’utilizzo misto conferma che si è in presenza di profili, che esulano dal potere regolamentare in concreto attribuito”. 

Per i giudici amministrativi “tali profili potranno essere oggetto di un diverso tipo di intervento normativo o essere lasciati all’attuazione in sede amministrativa sulla base dei principi generali dell’ordinamento interno e di quello dell’Unione europea in tema di attività non commerciali”.

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