Entra nel vivo, con la richiesta di risarcimento di 2,5 miliardi di danni che verrà discussa davanti al tribunale di San Josè, il processo statunitense che vede contrapposte Apple e Samsung, quest’ultima accusata dal gigante californiano di aver copiato con i tablet Galaxy i suoi dispositivi iPhone, violando cosi i brevetti della stessa società californiana. Samsung ovviamente non ci sta e ribatte di aver utilizzato solo delle idee, peraltro antecedenti lo sviluppo stesso dei tablet di punta dell’azienda statunitense. La stessa Samsung ha a sua volta accusato Apple di aver violato i propri brevetti.

In Italia il tribunale di Milano, lo scorso gennaio, ha respinto la richiesta cautelare per il blocco delle vendite in Italia dell’iPhone 4S di Apple, avanzata nell’ottobre del 2011 da Samsung. Il provvedimento adottato dal giudice civile meneghino, ritiene infondate in via cautelare le violazioni dei brevetti presentati dalla casa sudcoreana.

Nella vicenda legale, che ha già “ingrassato” torme di avvocati in almeno altri 12 paesi al mondo, sono già apparsi i migliori stereotipi delle liti sui brevetti, che assomigliano sempre di più alle liti condominiali. Come sempre quando le grandi multinazionali litigano si avverte la sensazione che dietro queste entità cosi sfuggenti vi siano persone in carne e ossa che palesano i difetti di tutti noi all’ennesima potenza. E così nella vicenda Apple-Samsung emergono, di fronte ad una giuria di una Contea statunitense, ma in realtà nell’Agorà globale, ripicche, tentativi di insabbiamento, accuse manifeste di distruzione di documenti che dimostrerebbero (nella fattispecie e mail interne della Samsung) violazioni di concetti che una parte chiama idee ( per dimostrare che aveva diritto a svilupparle ) e l’altra chiama brevetti (la Apple, per dimostrare che Samsung non aveva diritto a svilupparle).

Piuttosto è strano, come già rilevato da autorevoli commentatori, che Apple e Samsung, (dietro la quale si intravede l’ombra di Google per lo sviluppo del proprio sistema Android) non si siano accordate nel tentativo di evitare il processo, come è prassi negli Usa. Come si sa, negli Stati Uniti il processo rimane sempre l’extrema ratio, in omaggio al “molto concreto” detto latino “Quem licet fuqere, ne quaere litem”, poi ripreso dalla prassi giudiziaria francese con il brocardo “Un mauvais accommodement vaut mieux qu’un bon procès”, diversamente peraltro da quanto accade generalmente nel Bel Paese ove la lite giudiziaria viene prima di tutto. 

Ne sono un esempio gli accordi multimilionari tra i creatori di Facebook, immortalati nel film di successo “The social network” e le recenti “aperture” di Google di fronte alla Commissione Europea nel procedimento Antitrust che la riguarda.

In tutto questo il consumatore medio non ne è minimamente sfiorato dalla questione, visto che, nonostante la crisi, il mercato dei tablet, anche nel nostro Paese va una meraviglia e gli unici miliardi che ognuno di noi è probabilmente in grado di vedere nella propria vita e che destano realmente il nostro interesse, sono i pixel dei video che ci scambiano nei social network (con i tablet Samsung o Apple, o di chiunque altro).

La verità (almeno quella storica e non quella processuale) molto probabilmente non la sapremo mai, visto che le aziende cercheranno comunque un accordo che sorpasserà le nostre teste di “utenti medi”, e che non toccherà di una virgola la nostra propensione al consumo “smodato” di nuove tecnologie.

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