Onore al giudice (il gip di Taranto dott.sa Patrizia Todisco) che ha avuto il coraggio, l’indipendenza ed il rigore di firmare provvedimenti granitici a tutela della popolazione di una città, che mi dicono essere molto bella, eretta in un pregevolissimo contesto ambientale.

Onore ai pubblici ministeri che hanno svolto le indagini, ovviamente ben supportate da due perizie, una chimica e una epidemiologica di rilevante peso ed importanza.
L’Ilva, ex Italsider, rappresenta uno dei più gravi casi di inquinamento ambientale e di macroscopico impatto sulla salute, al pari di tutti i siti petrolchimici e dei siti di produzione dell’amianto sparsi in Italia nel corso dei decenni. Sparsi quando poco si sapeva delle conseguenze che avrebbero arrecato negli anni ma man mano che trascorrevano gli anni, acquisendo però con l’evoluzione della scienza le giuste cognizioni per intervenire, correggere il tiro, approntare le migliori tecnologie possibili e se necessario interrompere la produzione ove l’impatto sarebbe stato comunque gravemente pregiudizievole.

Raramente ciò è avvenuto, non solo in Italia ma anche nel mondo. La parabola dannosa che ha connotato nel tempo la permanenza colposa (ed anche dolosa) di un sito produttivo, per mezzo di omissioni, notizie occultate menzogne, mancati investimenti nel rinnovamento delle tecnologie è guidata sempre dalla cinica logica del profitto. Il profitto nonostante tutto, in spregio delle centinaia e migliaia di morti e di invalidi sparsi silenziosamente. Logica sostenuta con l’ipocrisia della “tutela del lavoro”.

In questa materia però tutto il mondo è paese. Chi si occupa di ambiente conosce bene queste dinamiche, le ha criticate e tenta di cambiarle perché sa bene che salute e ambiente (quando s’incrociano, inscindibili) sono beni non bilanciabili con il lavoro. Neppure costituzionalmente, ovviamente. E’ però molto complesso spezzare l’assioma tra il mantenimento del sito pericoloso e la tutela del lavoro “sempre e comunque”.

Soprattutto in Italia dove la cultura di sinistra (e non solo), dei sindacati e dei partiti, ha preteso ed ha imposto per decenni la legittimazione (seppur dinanzi a palesi illegalità) di siti di estrema pericolosità a ridosso dei centri abitati e in mezzo agli stessi, perché “il lavoro va sempre salvaguardato”.

Spiace dirlo ma tale assioma è un grande inganno ed è costato all’Italia migliaia e migliaia di morti (Venezia, Priolo, Taranto, Casale Monferrato, Broni etc.). L’alibi del lavoro ha sacrificato la salute di migliaia di persone. Miopia, incultura ed ipocrisia si sono mescolate. In molti casi anche dissuadendo la magistratura ad intervenire ben sapendo che poi avrebbe subito la dura opposizione dei sindacati, dei partiti oppure delle stesse grandi multinazionali.

Non a Taranto, perlomeno non ora.

A Taranto nella città opera da decenni un enorme stabilimento siderurgico che produce di continuo enormi inquinanti (polveri; diossido di azoto; anidride solforosa; acido cloridrico; benzene; idrocarburi Policiclici Aromatici; Benzo(a)pirene; diossine; cromo III; monossido di carbonio; biossido di carbonio; composti organici volatili non metanici; ossidi di azoto; ossidi di zolfo; arsenico; cadmio; cromo; rame; mercurio;  nichel; piombo; zinco; IPA; benzene; cloro e composti organici; fluoro) prodotti dai parchi minerali, dalle cokerie e dal camino E312 dell’impianto di agglomerazione.

Nel 2012 sono state rese alla Procura due perizie (chimica e epidemiologica) che hanno confermato l’estrema gravità della situazione, non più sostenibile. Dalla seconda perizia emergono 11.550 morti in totale, con una media di 1.650 morti all’anno, soprattutto per cause cardiovascolari e respiratorie; un totale di 26.999 ricoveri, con una media di 3.857 ricoveri all’anno. Il collegio peritale ha risposto indicando nella fattispecie una “forte evidenza scientifica” per la mortalità e per numerosissime patologie, evidenziando che “L’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte”.

Si pensi solo che per quanto concerne la diossina gli impianti dell’Ilva ne emettevano nel 2002 il 30,6% del totale italiano, ma che poi nel 2006 la percentuale sarebbe salita al 92%.

Il Gip scrive che «Chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza».

Ora i provvedimenti hanno indotto gli operai (comprensibilmente) a scendere in corteo per tutelare il posto di lavoro e (meno comprensibilmente) i ministri all’ambiente Clini e allo sviluppo Passera ad invocare un riesame urgente del sequestro, con un intento mediatorio.

Ma non sempre in situazioni così gravi si può raggiungere un compromesso. In alcuni casi occorre fare delle scelte, anche nette. L’unica via d’uscita potrà essere una veloce riconversione dell’area ed un delicato risanamento ambientale. Il Gip scrive attentamente che “Non può più essere consentita una politica imprenditoriale che punta alla massimizzazione del risparmio sulle spese per le performances ambientali del siderurgico, i cui esiti per la comunità tarantina ed i lavoratori del siderurgico, in termini di disastro penalmente rilevante (…) sono davvero sotto gli occhi di tutti”.

Coraggio, si può e si deve svoltare pagina. 

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