Quando si iscrivono al primo anno di università sono un esercito, e almeno dal 1992 superano abbondantemente gli uomini. Stessa cosa succede al momento della laurea: dal nuovo millennio le donne che ottengono il titolo accademico sono più della metà del totale dei laureati. Se però vogliono continuare con la carriera accademica le cose iniziano a complicarsi, e diventano sempre di meno fino quasi a scomparire. Più che una decimazione. Per usare le parole di Eugenia Lodini, ricercatrice dell’Università di Bologna, “Le ragazze sono in testa per iscrizioni, laurea, mobilità, master, ma  a livello di dottorato comincia l’imbuto, la strada si restringe”. Da 6 donne su 10 al momento della laurea, la presenza femminile passa ad un misero 20% tra i professori ordinari. Da 6 a 2: come dire che le altre 4 si perdono per strada. Dati impressionanti che dimostrano, spiega Paola Govoni sempre dell’ateneo bolognese, “la discriminazione a cui le donne sono sottoposte sul posto di lavoro universitario”. Non solo una questione di ingiustizia sociale, ma anche un’enorme spreco di denaro pubblico. Milioni e milioni usati per formare migliaia di studiose che poi non riescono a fare carriera e a affermarsi nel mondo accademico. Insomma un disastro.

Basta guarda al Crui, la conferenza dei rettori delle università italiane. Su 81 poltrone solo 5 sono occupate da donne. Un misero 6%. La situazione è così grave che Maria Chiara Carrozza, direttrice della scuola superiore Sant’Anna di Pisa, ha chiesto al Crui l’introduzione delle quote rosa nei senati accademici e nei consigli di amministrazione delle università. Per restare a Bologna la foto della squadra di governo dell’Alma Mater parla da sola. Un rettore circondato da sette uomini e quattro donne. Una sproporzione non solo quantitativa, ma anche qualitativa. Le quattro docenti si occupano di relazioni con gli enti esterni, collegamento fra gli organi e gli enti esterni, personale tecnico amministrativo e internazionalizzazione. Gli incarichi per gli uomini sono invece di ben altro peso: bilancio e ricerca, studenti, sedi decentrate, edilizia e didattica.

Per tornare ai numeri nazionali le cifre da tenere in considerazione sono queste: 45, 34, 20. Cioè le percentuali di presenza femminile tra ricercatori, professori di seconda fascia (gli associati) e di prima (gli ordinari). Insomma, più si sale di carriera meno donne ci sono. Una media che tiene conto anche di quello che succede nell’area umanistica, dove il genere femminile va un po’ meglio. Le ordinarie sfiorano il 30%. Sempre troppo poco considerando che le ricercatrici ormai superano da tempo gli uomini (53% del totale). Altrove la situazione precipita. Le ordinarie di fisica e chimica sono solo il 7%. Anche a medicina le cose vanno male: solo l’11% di professoresse di ruolo.

I numeri cambiano pochissimo se si passa dai dati nazionali del Miur a quelli locali forniti dall’Università di Bologna. Una ricerca di Rossella Rettaroli, ordinaria di scienze statistiche, mostra come i dati dell’ateneo bolognese siano sostanzialmente in linea con quelli italiani, con solo qualche miglioramento tra le ricercatrici, leggermente di più rispetto al dato nazionale. A spulciare tra i numeri si scopre però come ci siano organismi dove le donne non mettono nemmeno piede. Ad esempio l’Osservatorio per la ricerca. Quattordici posti assegnati tutti a uomini che si occuperanno, sotto la guida di un altro collega, il prof. Mauro Bernardi, della definizioni dei criteri per “l’analisi e la valutazione dell’attività scientifica svolta nell’Ateneo”. La conclusione dello studio è sconfortante: “L’evoluzione dei dati non mostra tendenze al ravvicinamento”. Da un iniziale 48% di donne nei ruoli di ricerca, a Bologna la percentuale femminile scende al 36% per le professoresse associate e precipita al 20% per le professoresse ordinarie. Detto in altri termini iniziano a fare ricerca 617 donne e ne arrivano in prima fascia 192.

“Difficile dire esattamente a cosa sia dovuta la discriminazione di genere in Università, che però c’è ed è pesante”, spiega Paola Govoni. Un fattore è la cooptazione: finché a decidere sulle nomine saranno gli uomini, ad essere scelti saranno altri uomini. Una tesi sostenuta dal progetto europeo “Diva: Science in a different voice”. Per i ricercatori del Diva i professori ordinari si comporterebbero involontariamente come circoli esclusivi “che lasciano fuori dalla stanza delle decisioni (carriere, finanziamenti, attribuzioni di responsabilità) le tanto brave colleghe”. “Penalizzare le donne che lavorano nel mondo scientifico attraverso pratiche informali, ma non per questo meno efficaci, di discrezionalità nella cooptazione, è però incongruo rispetto alle ragioni stesse della ricerca e dell’eccellenza scientifica. Infatti – recita un rapporto di Rossella Palomba e Adele Menniti –  impedire a studiose di qualità di accedere in misura significativa alle posizioni di eccellenza per il solo fatto di appartenere al genere femminile non solo discrimina le donne, ma penalizza l’innovazione”. Detto in altri termini peggiora e di molti i risultati scientifici del sistema universitario italiano. Per non parlare del costo di formazione di migliaia di donne che non riescono a fare carriera accademica perché discriminate. Sulla questione mancano ancora studi precisi, “ma lo spreco economico è enorme. Qualcuno – conclude Govoni – se ne sta finalmente rendendo conto”.

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