Già subito dopo la strage di Via D’Amelio la Direzione investigativa antimafia di Palermo aveva ipotizzato che dietro al massacro del giudice Paolo Borsellino ci potesse essere qualcosa di diverso rispetto alle precedenti stragi mafiose. Secondo gli investigatori, infatti, nello scempio del 19 luglio 1992 Cosa Nostra non è l’unico attore della strage. La mafia, stando alla nota, è diventata attuatore di un progetto criminale tracciato da poteri più grandi, con un obbiettivo superiore rispetto agli interessi dei clan. Una tesi investigativa importantissima e immediata quella della Dia ma che non verrà mai tenuta in considerazione dalle indagini che grazie al falso pentito Scarantino depistaranno per anni l’inchiesta su via d’Amelio.

Il riferimento a quello spunto d’indagine è contenuto in una relazione che la Dia invia il 10 agosto del 1993 all’allora ministro dell’Interno Nicola Mancino. Un rapporto illuminante che per quasi vent’anni è stato catalogato come “Riservato” dal Viminale, prima che la commissione antimafia lo declassificasse nella seduta dello scorso 20 luglio.

Un rapporto tirato fuori integralmente dal sostituto procuratore della Dda di Palermo Nino Di Matteo proprio durante la deposizione dell’ex ministro Mancino all’ultima udienza del processo contro Mario Mori e Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento a Cosa Nostra.

Sono 24 pagine di analisi investigativa quelle redatte dalla Dia che decriptano quasi in diretta le dinamiche dell’aggressione allo Stato che Cosa Nostra mette in atto nel 1992 – 1993. Un attacco che si divide in almeno due periodi separati da una data fondamentale: il 19 luglio 1992, ovvero la strage di via d’Amelio. “La strage di Capaci e l’omicidio di Salvo Lima sono da interpretare come due momenti significativi di una strategia a difesa di Cosa Nostra –si legge nella relazione – dopo la strage di via d’Amelio, Cosa Nostra è divenuta compartecipe di un progetto designato e gestito insieme ad un potere criminale diverso e più articolato”.

Dopo via d’Amelio il progetto eversivo messo in campo avrà il suo apice nelle bombe piazzate a Roma, Firenze e Milano. Stragi in cui perdono la vita anche civili innocenti: un modus operandi che non apparteneva fino a quel momento al bagaglio tipico di Cosa Nostra, che infatti è diventata il “service dell’orrore” di un gruppo criminale a cui partecipano anche poteri più alti. Infatti gli analisti della Dia notano che “la scelta dei tempi di esecuzione (delle stragi di Roma, Firenze e Milano) appare legata ad una concreta possibilità per i mass media, e in particola per le reti televisive, di intervenire con assoluta tempestività amplificando e drammatizzando gli effetti delle esplosioni con le riprese in diretta”. Cosa Nostra quindi per la prima volta mette le bombe in tempo per finire su tutti i telegiornali. Una strategia perfetta per “insinuare nell’opinione pubblica il convincimento che in fondo potrebbe essere più conveniente una linea eccessivamente dura per cercare soluzioni che conducano ugualmente alla resa di Cosa Nostra a condizioni in qualche moto più accettabili per Cosa Nostra”.

Quelle bombe hanno un duplice obbiettivo: da una parte l’alleggerimento delle condizioni carcerarie per i boss detenuti; dall’altra il raggiungimento di una nuova pax tra mafia e Stato. È la trattativa, e gli stessi analisti della Dia ne parlano nella nota. “La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”. È solo il 10 agosto del 1993 ma gli analisti della Dia la definiscono proprio così: “trattativa”, forse per la prima volta nella storia.

Ma c’è anche dell’altro: “Verosimilmente – continua la nota – la situazione di sofferenza in cui versa Cosa Nostra e la sua disperata ricerca di una sorta di soluzione politica potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle istituzioni, ed aver dato vita ad un pactum sceleris attraverso l’elaborazione di un progetto che tende a intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme d’impunità ovvero innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro paese per condizionarlo.”

A questo punto, fanno notare gli investigatori della Dia al Ministro dell’Interno, la situazione del pugno di ferro tra lo Stato e Cosa Nostra potrebbe anche essere recuperata, nonostante la gravità dell’analisi. Ma a una condizione: non cedere di un millimetro proprio sull’oggetto che ha scatenato la violenza mafiosa, ovvero il carcere duro. “È chiaro – avvertono gli investigatori antimafia – che l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis, potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”. E infatti nel novembre successivo, appena due mesi dopo l’arrivo della nota sulla scrivania di Mancino, il Ministro della Giustizia Giovanni Conso lascerà scadere il regime di 41 bis per 373 detenuti mafiosi. Proprio il segnale di cedimento che lo Stato non avrebbe mai dovuto dare in quel momento.

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