Sale di ora in ora il bilancio del terribile incendio divampato, per cause ancora da accertare, nella prigione di Comayagua, in Honduras. Al momento, le vittime accertate sono almeno 272, su circa 800 detenuti presenti nella prigione quando è il fuoco ha iniziato a diffondersi. Mancano all’appello, però, altre 80 persone e le autorità locali non si sbilanciano a dire se sono anch’esse morte nel rogo o sono riuscite a salvarsi o perfino a scappare.

L’ipotesi più acceditata, tuttavia, è che il bilancio finale sarà molto vicino ai 350 morti, se non di più. Le fiamme sono partite nella notte di martedì, e i vigili del fuoco ci hanno messo più di un’ora per domarlo. In quell’ora, secondo i primi rilievi della polizia honduregna, è avvenuto il massacro.

Fuori dal carcere centinaia di persone, familiari dei detenuti, aspettano notizie dei propri congiunti e secondo le testimonianze raccolte dalle agenzie di stampa internazionali la maggior parte delle vittime sarebbe morta per soffocamento, nelle celle sovraffollate, inondate dal fumo dell’incendio. Sono decine, però, quelli che sono stati bruciati vivi. Una tragedia nella tragedia perché rende difficilissimo il riconoscimento dei corpi.

Qualcuno è riuscito a salvarsi arrivando fino al tetto del penitenziario. Josue Garcia, il capo dei pompieri di Comayagua ha descritto scene “infernali”: «Non siamo riusciti a salvarli perché non avevamo le chiavi delle celle e non potevamo rintracciare chi le aveva», ha detto ai reporter. I pompieri hanno riferito di aver sentito degli spari provenire dalla prigione, quando l’incendio era già scoppiato e secondo alcuni media locali, nel carcere, un centinaio di chilometri dalla capitale Tegucigalpa, era in corso una rivolta. Un’ipotesi smentita però dal direttore del dipartimento penitenziario Daniel Orellana, che ha detto alla Reuters che possibili disordini potrebbero essere scoppiati solo dopo che l’incendio è divampato: di fronte al rischio – per moltissimi rivelatosi fin troppo concreto – di morire in cella bruciati o asfissiati, alcuni detenuti avrebbero cercato di sopraffare le guardie per aprire le celle.

Quanto alle cause del disastro, Orellana ha due ipotesi: «Un detenuto potrebbe aver dato fuoco a un materasso, forse per protestare, o potrebbe esserci stato un corto circuito». Di certo, quella del carcere di Comayagua rischia di diventare la peggior tragedia carceraria della storia recente dell’America latina. Un precedente simile, in Honduras, risale al 2004, quando 107 detenuti morirono nell’incendio scoppiato nel carcere di San Pedro Sula.

Le condizioni delle carceri in Honduras sono micidiali: le prigioni sono sovraffollate e nel paese che ha il più alto tasso di omicidi al mondo (82 ogni 100 mila abitanti, secondo i dati dell’Onu del 2010, venti omicidi al giorno), le prigioni diventano il terreno di scontro tra bande rivali.

Dal golpe del 2009 che ha portato al potere il presidente Porfirio Lobo la sicurezza nel paese non è affatto migliorata, anzi: all’inizio di novembre del 2011, il presidente ha anche autorizzato l’impiego dell’esercito nel contrasto al crimine, ma nello stesso tempo, stando ai rapporti di Amnesty Internationale e di Human Rights Watch, è aumentata la violenza nelle zone rurali e sono cresciute le minacce – a volte riconducibili proprio al governo e alle forze armate – contro giornalisti e attivisti per i diritti umani. Il paese, peraltro, risente degli effetti della guerra al narcotraffico iniziata dal governo messicano nel 2006 e secondo gli ultimi rapporti sui cartelli messicani, anche in Honduras si fa sentire la presenza dei più agguerriti, come gli Zetas, le cui spire arrivano anche ben addentro il sistema penitenziario.

di Joseph Zarlingo

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