Finora Mario Monti non aveva sbagliato una dichiarazione. In un paese di politici gaffeur o cialtroni, parlava come un libro stampato, senza demagogie, smargiassate, promesse al vento. Un marziano anche rispetto a quel caravanserraglio che s’è rivelato il suo governo, un frittomisto di sobrii professori e tecnici veri (come l’ottima Cancellieri), banchieri e avvocati in conflitto d’interessi, boiardi con triplo stipendio e traffichini impresentabili. Poi ha iniziato a sbracare anche lui, martonizzandosi a Matrix con la fesseria sul posto fisso “monotono”. In un paese pieno di disoccupati che non trovano il primo lavoro, invitarli a pensare al secondo o al terzo è roba da dilettanti allo sbaraglio. E difenderla con le solite scuse dell’“equivoco” e del “fuori contesto” è la classica toppa peggiore del buco.

Nel forum con Repubblica tv, poi, il premier s’è vantato di misure “incisive con le banche”: roba da ridere, visti gli innumerevoli regali che il suo governo ha fatto ai banchieri (non ai risparmiatori). S’è vantato di aver “messo una tassa sugli scudi” (una barzelletta: l’ 1,5% per chi ha evaso aliquote fino al 43% pagando appena il 5). Ha detto che “lo spread è stato usato in modo esagerato come arma contundente contro Berlusconi”, mentre fu proprio lui, quand’era ancora editorialista del Corriere, a sparare a zero su B. mentre lo spread galoppava. Sull’Ici alle chiese ha parlato, più che da decisionista, da forlaniano: “Stiamo approfondendo e stiamo andando avanti nell’approfondimento”. Wow! Poi ha promesso, anzi minacciato, “una riforma strutturale della giustizia penale e civile”: ma questa è una scelta tutta politica, che richiede una maggioranza eletta, non un governo di tecnici piovuti dal cielo per il pronto soccorso finanziario. Infine ha detto che “l’articolo 18, per come viene applicato, sconsiglia l’investimento di capitali stranieri e italiani”. Ohibò: si pensava che non si investisse in Italia a causa delle mafie, della corruzione, degli appalti truccati, del falso in bilancio legalizzato, dei tempi biblici dei processi, dell’alto costo del lavoro. Invece, in un paese pieno di licenziati, per Monti licenziare è ancora troppo difficile: bisogna poterlo fare anche senza giusta causa. E viva la faccia: dopo due mesi di penosi balletti, siamo finalmente al dunque.

Il 18 dicembre, fra un pianto e l’altro, la ministra Fornero disse al Corriere che “l’articolo 18 non è un totem” (voleva dire tabù). Poi, dinanzi alle polemiche, fece retromarcia a Porta a Porta: “Non avevo e non ho oggi in mente nulla che riguardi in modo particolare l’articolo 18. Sono stata ingenua, i giornalisti sono bravissimi a tendere trappole. Vogliamo lasciarlo stare questo articolo 18? Io sono pronta a dire che neanche lo conosco, non l’ho mai visto”. L’8 gennaio Monti smentì la retromarcia: “Niente va considerato un tabù. In questo senso il ministro Fornero ha citato l’articolo 18”. Il 30 gennaio la Fornero, in tournèe a Otto e mezzo, fece un passo avanti quasi indietro: “L’articolo 18 non è preminente, ma non deve essere un tabù e si può discutere”. E il 2 febbraio propose di sostituire il reintegro dei licenziati senza giusta causa con un indennizzo e minacciò di procedere anche contro i sindacati. Ora Monti comunica che l’articolo 18 – quello che andava “lasciato stare” e non era “preminente” – blocca addirittura gli investimenti.

Giovedì a Servizio Pubblico un cassintegrato di Pomigliano ha rivelato che, su 1300 cassintegrati riassunti, nessuno è della Fiom. Poi Santoro ha trasmesso un filmato che mostra il “gestore operativo” della Fiat di Melfi mentre minaccia mafiosamente di morte un operaio: “Ti brucio vivo, ti stacco la testa e la metto in piazza … sai di che famiglia sono?”. La Fiat ha detto o fatto qualcosa? Niente. E il governo? Niente. Sta’ a vedere che pure le minacce mafiose agli operai e le discriminazioni politiche in fabbrica sono colpa dell’articolo 18.

Il Fatto Quotidiano, 5 Febbraio 2012

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