Vertice europeo sulla crisi Finanziaria. Nella foto, Jose Manuel Barroso e Silvio Berlusconi

Fiducia a tempo. O forse sarebbe più corretto dire “fiducia forzata”, visto che in una giornata come quella di ieri un conflitto aperto con l’Italia sul tema riforme sarebbe stato semplicemente insostenibile. Di fronte alla necessità di trovare un accordo che stabilisse alcuni punti fermi – default greco con svalutazione al 50%, ricapitalizzazione bancaria, aumento del fondo salva Stati – l’Europa accoglie la lettera d’intenti del governo italiano con malcelata riserva. Perché sarà pur vero, come aveva affermato quasi in anteprima il neo presidente Bce Mario Draghi, che le 15 pagine consegnate a Bruxelles costituiscono “un passo importante”, ma certo, ed è questo oggi l’aspetto chiave della vicenda, non basta un programma generico di riforme per garantire all’economia italiana una svolta attesa, di fatto, da circa 20 anni. Da quando, cioè, il Paese ha assunto un ritmo di crescita da fare invidia letteralmente ad Haiti, Zimbabwe ed Eritrea: le sole economie nazionali capaci, negli ultimi due decenni, di esprimere performance di crescita peggiori delle nostre.

Che si tratti di fiducia obbligata e proprio per questo “temporanea” lo si intuisce per lo meno dal semplice confronto con un’altra lettera, decisamente più sintetica e per questo particolarmente incisiva. Nel messaggio inviato ad agosto al governo italiano (e reso pubblico a fine settembre) la Bce aveva chiarito la sua posizione: l’Italia, spiegò l’allora presidente Juncker avrebbe dovuto impegnarsi essenzialmente su tre fronti: riduzione del deficit pubblico, privatizzazione e liberalizzazione del mercato del lavoro. Ora, le linee guida restano ma i piani presentati ieri da Roma restano confinati alla categoria delle buone intenzioni. Visto che le riforme, ovviamente, sono a) ancora da fare; b) niente affatto semplici da approvare; e c) di per sé insufficienti per non dire controproducenti rispetto a quello che è il vero obiettivo di fondo: l’avvio di un processo di crescita duraturo.

Un paio di esempi su tutti. L’Europa chiede una razionalizzazione del settore pubblico italiano, giudicato oggi mastodontico, inefficiente e in definitiva non sostenibile. Nella lettera inviata a suo tempo dalla Bce si segnalava la necessità di una “complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali”, cosa che avrebbe dovuto realizzarsi “in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala”. Tutte cose che Roma stenta a definire. Non è chiaro ad esempio cosa intenda fare il governo per “liberalizzare i servizi” dal momento che nella lettera di intenti si parla genericamente solo di modernizzazione. Ed è scontato che la ricerca dell’efficienza, ovvero della riduzione degli sprechi, non sarà mai perseguita attraverso l’effettivo taglio del personale, visto che, come ribadito con orgoglio dallo stesso premier, l’extrema ratio concepita per l’occasione sarebbe costituita al massimo dalla mobilità e non dai licenziamenti. Ed è proprio quest’ultimo elemento a suggerire più di una considerazione.

Alla faccia del liberalismo, continua a crescere inesorabile il divario tra pubblico e privato nella gestione dei rapporti di lavoro, ovvero lo “spread”, per usare un termine ormai affermato, tra le garanzie concesse ai lavoratori del primo e quelle, sempre più scarse, offerte ai lavoratori delle imprese. Berlusconi promette di rendere più semplici i licenziamenti “per motivi economici” rimarcando così una traiettoria già assunta meno di un anno fa con il referendum di Mirafiori e le successive riforme di deroga alla contrattazione nazionale. Tutte cose che, al di là delle polemiche di facciata, non dispiacciono per niente a Confindustria. Ma che, particolare non da poco, non sono in realtà così in linea con quanto invocato dall’Europa.

Perché se è vero che Draghi e Juncker avevano parlato di ulteriori riforme del “sistema di contrattazione salariale collettiva” che permettessero “accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende”, non va dimenticata la contemporanea richiesta di adozione di “un sistema di assicurazione dalla disoccupazione”. In pratica si tratterebbe di allineare l’Italia al resto del Continente: sì ai licenziamenti in nome dell’efficienza, sì all’introduzione dei sussidi di disoccupazione per garantire la continuità del reddito. Un aspetto, quest’ultimo, a dir poco decisivo per impedire la depressione dei consumi o, peggio ancora, un’ondata di default sui debiti contratti dai cittadini con le banche (i mutui). Peccato però che sul sostegno alla disoccupazione il governo non si sia mai espresso.

Quanto al piano di riduzione del deficit, c’è poco da rallegrarsi. In poco più di un mese, ha spiegato Berlusconi nella sua lettera, “il governo definirà un piano di dismissioni e valorizzazioni del patrimonio pubblico che prevede almeno 5 miliardi di proventi all’anno nel prossimo triennio. Previo accordo con la Conferenza Stato-Regioni, gli enti territoriali dovranno definire con la massima urgenza un programma di privatizzazione delle aziende da essi controllate. I proventi verranno utilizzati per ridurre il debito o realizzare progetti di investimento locali”. Tutto estremamente logico, se non fosse che sull’efficacia delle dismissioni e sui conflitti di competenza (buona parte dei beni immobiliari pubblici, ad esempio, dovrebbe prima passare sotto il controllo dello Stato centrale essendo ancora oggi nelle mani degli enti locali) qualcuno ha già espresso più di una perplessità. Anche la messa in vendita del patrimonio, insomma, resta da verificare, come tutto il resto, d’altra parte. Solo che per il momento non abbiamo di meglio, come ben sa quell’Europa che da oggi si mette ufficialmente in attesa, pronta a intensificare il pressing sul paziente italiano alla prima occasione, il primo ostacolo, la prima scadenza. Appuntamento tra un mese, insomma. Se non prima.

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