Sì, da noi (in Campania, cioè) si dice anche così: aggratis. Sta per gratis, free, frei, doreàn, besplatno. Senza compenso, cioè. Da qualche parte ricordo di aver letto questa domanda (retorico-provocatoria): “Gratis è il nuovo stipendio?”

La questione del precariato nel giornalismo è di attualità, per questo mi piacerebbe raccontare anche di una mia esperienza.

Scendo dal pullman. Io – che arrivo da una provincia interna – come al solito sono in anticipo, anche se, arrivata al Centro Direzionale, ci vuole tempo per capire dove sta il ‘loculo’ con l’ufficio dell’appuntamento. L’area è suddivisa in isolati, ma le indicazioni sono carenti. Mi tocca fare un lungo giro di ricognizione.

Con buona pace di Kenzo Tange (l’architetto che lo ha progettato), il Centro Direzionale di Napoli sembra in dismissione. Era il simbolo di modernità e futuro scintillante, con i suoi spigolosi e svettanti grattacieli. Ora sta diventando un cimitero di mastodonti. Le vetrate sono coperte da arazzi di cartelli con fittasi e vendesi. Molti sono gli alloggi e i vani terranei in stato di quasi-abbandono. Alle quattro del pomeriggio è già semivuoto.

Negozi e attività falliscono; le imprese si ridimensionano e i fitti non sono più sostenibili: conseguenze della crisi. A Napoli (come in tutto il sud) la crisi costa il doppio. Se non fosse per il Tribunale e per gli uffici della Regione sarebbe una landa desolata e potenzialmente pericolosa. Siamo nella zona “r’o Vasto”, tra il carcere di Poggioreale e la stazione ferroviaria, nel quartiere della Vicarìa.

Per arrivarci, da piazza Garibaldi, devi incrociare le dita e fartela guardinga di corsa (o quasi), trattenendo il fiato, stringendoti alla borsa e soprattutto andarci con la luce del giorno. O forse è solo che sono un po’ troppo fifona.

Faccio un po’ anticamera, in quanto gli editori del giornale non sono ancora arrivati. Stanno cercando un nuovo direttore per il loro periodico. Mi avevano contattata una decina di giorni fa ed eccomi qui.

Arrivano due giovanotti dinamici e insieme al terzo editore parliamo per due-ore-due fitto fitto. Sono simpatici, aperti, solari, innamorati di Napoli e speranzosi. Dichiarano tutto il loro entusiasmo per questa ‘criatura’, ovvero il progetto editoriale nato poco più di un anno fa.

Vogliono sapere tutto: loro tre appaiono poco esperti di giornalismo, editoria, internet, social media e tutto il resto appresso.

Mi fanno tante domande: vogliono sapere come me la caverei su questo o su quello.

Come farebbe un’intervista al Sindaco?

Che ne pensa di George Michael?

Della legge contro l’omofobia?

De Magistris doveva o no baciare la teca di San Gennaro?

Sono utili le Consulte per la vita amministrativa di una Città?

È utile stare su Facebook o no?

Sembrano molto contenti delle risposte. Io comincio a stancarmi, invece.

Metto la parola fine all’interrogatorio (anche perché si sta facendo tardi e devo riprendere il pullman per la mia provincia interna) e solo allora, in meno di trenta secondi, mi comunicano che hanno poche risorse e che possono offrirmi 300 euro al mese. Io con tranquillità dico loro che con 300 euro non ci copro neanche le spese di trasporto per venire a Napoli. Figuriamoci poi se devo andare a fare le interviste, presenziare alle riunioni di redazione, partecipare ai convegni, andare in trasferta, coordinare redattori e capo-redattori, e tutto il resto che serve per dirigere un giornale insomma. Entusiasmo compreso.

Sono tornata a casa con il mal di testa.

Mentre l’autista correva sull’autostrada a rotta di collo (ci mancava che smanettasse sms sul cellulare, come aveva fatto quello all’andata), dal finestrino ammiravo uno stupendo cielo infiammato dal tramonto dietro Ischia (la Campania è bellissima quando ci si mette) e ripassavo mentalmente tutte le statistiche e i report che avevo letto sul giornalismo in Italia. La maggior parte degli articoli presenti sui quotidiani della Campania e non (on line e cartacei) sono scritti da collaboratori esterni e/o precari e da giornalisti in pensione (che però firmano contratti di collaborazione). La paga media di un giovane giornalista precario (anche di un aspirante, cui servono i fatidici ‘tre pezzi al mese’ nei due anni necessari per la certificazione utile all’iscrizione all’Ordine), è di 300 euro mensili. Ma molte sono le testate che non pagano neanche questo minimo. A soffrirne è certamente la qualità, oltre che la dignità del giornalista, o aspirante tale. Ma tant’è.

Vi garantisco che non nutrivo alcuna speranza di una proposta economica decente, né avrei mai accettato l’incarico alle condizioni offerte, nonostante l’entusiasmo: non guadagnare è un conto, ma rimetterci è un altro. La mia lunga gavetta aggratis l’ho fatta (anche ora – purtroppo – la stragrande maggioranza dei miei articoli pubblicati non viene pagata). E mi sono stancata.

di Marika Borrelli

Ps: Non sono diventata il direttore del giornale, ovviamente.
(Ultima chicca raccontata da un’aspirante assistente di redazione: clickate qui.)

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