Gli asset tossici che hanno scatenato la più grande crisi finanziaria del dopoguerra continuano a pesare sui bilanci delle banche statunitensi, identificando, con la loro stessa presenza, perdite potenziali per 13,8 miliardi di dollari. A lanciare l’allarme è stato il Wall Street Journal con un’analisi pubblicata nella sua edizione odierna. Chi pensava, dunque, che i guai del sistema economico statunitense e globale fossero ormai ridotti, si fa per dire, al disavanzo dei conti pubblici deve ora ricredersi. Perché le scorie del credit crunch non sono state affatto smaltite. Ma pesano terribilmente come prodotti complessi quanto indigesti e, per questo, ben lungi dall’essere metabolizzati.

Il momento, apparentemente, è di quelli buoni, se si pensa che nel corso degli ultimi 5 mesi al calo generale delle insolvenze sui prestiti si è affiancato un incoraggiante +25% nel valore medio delle azioni degli istituti. Ma in realtà, spiega oggi il Wsj, c’è sempre l’altra faccia della medaglia. Quelle perdite virtuali che, sulle prime dieci banche del Paese, incidono per quasi 14 miliardi. Solo che, come si diceva, si tratta per ora di disavanzi “in potenza” visto che il valore reale dei titoli incriminati non è conteggiato come tale. Se così fosse stato, evidenzia il quotidiano Usa, nei primi nove mesi dello scorso anno, i ricavi lordi delle banche sarebbero stati inferiori per il 21%.

I famigerati “assets tossici”, titoli complessi come le collateralized debt obligations (Cdo) e in generale le mortgage backed securities, ovvero quella galassia di prodotti strutturati costruiti sul mercato dei mutui, fanno parte del cosiddetto “livello 3” dei bilanci bancari. Si tratta, in sintesi, del variegato insieme di titoli che si distinguono nettamente dal fronte delle riserve, del capitale azionario e dei titoli ad alta qualità che compongono i comparti pregiati del portafoglio bancario. Asset illiquidi, ovviamente, ma anche estremamente complessi e quindi, in altre parole, difficili da prezzare. Nelle prime 10 banche americane, il livello 3 vale oltre 360 miliardi, più o meno il 42% del patrimonio. Una fetta consistente di ricchezza, insomma, il cui valore effettivo resta oggi altamente misterioso.

Prendete il caso di Citigroup. La banca, afferma il Wsj, portava in grembo a settembre 79,1 miliardi di titoli di terzo livello, con un’incidenza del 48%. Peccato però che questo dato non compaia nell’ultimo rapporto trimestrale dell’anno. Per avere delle certezze, quindi, occorrerà attendere il deposito di un’altra relazione annuale presso la Securities and Exchange Commission (Sec), cosa che dovrebbe avvenire tra circa un mese. La buona notizia, per ora, è che negli ultimi due anni, il peso del “comparto problematico” nella ricchezza dei maggiori istituti Usa è diminuito del 24%. Ma molti problemi, come si è visto, non sono ancora risolti.

Se l’allarme del Wsj vi suona familiare sappiate che non siete in errore. Quelli degli asset tossici e del famigerato terzo livello sono problemi comuni anche nel Vecchio Continente. Nell’ottobre 2008, l’International Accounting Standard Board ha approvato una modifica alla norma 39 dei principi contabili internazionali consentendo alle società di derogare, quando lo si ritiene opportuno, al principio del mark to market nella classificazione delle attività illiquide. In sintesi: il valore degli strumenti finanziari in portafoglio non viene più calcolato in base all’effettivo prezzo di mercato (fair value) ma viene al contrario fissato in modo del tutto opinabile sulla base del costo storico e di quello ammortizzato. Così, ad esempio, un titolo obbligazionario può essere “valorizzato” in base al suo rendimento nominale alla scadenza anche quando, nelle intenzioni della società, era prevista una sua cessione sul mercato. E poco importa, nel caso, che il titolo in questione un valore effettivo di mercato non ce l’abbia neanche più.

A seguito della riforma, già nell’autunno di quell’anno molte banche videro le perdite sparire magicamente. Deutsche Bank riconteggiò circa 25 miliardi di asset, registrando un utile trimestrale (al 30 settembre 2008) di 414 milioni di euro contro il previsto rosso di 431 milioni. Unicredit, contemporaneamente, spiegò nella sua relazione trimestrale come “l’applicazione dei nuovi criteri contabili” avesse “determinato un impatto (positivo) complessivo sull’utile ante-imposte di 866 milioni di euro“. Senza la riforma e il conseguente “impatto”, il bilancio avrebbe registrato una perdita di 90 milioni di euro. Lo stesso destino che avrebbe caratterizzato la trimestrale di Intesa-Sanpaolo (673 milioni di utile netto messo a bilancio contro una perdita attesa di 141 milioni) e quella di Carige (52 milioni di segno positivo contro i previsti 9 milioni di perdita).

Ad oggi, ha evidenziato negli scorsi mesi Mediobanca, i principali istituti europei porterebbero tuttora in portafoglio circa 347 miliardi di asset tossici equivalenti in media al 52,3% del patrimonio netto con punte anche del 209%, Deutsche Bank, e del 598,5% come nel caso della franco-belga Dexia. In Italia, se non altro, i livelli restano molto contenuti con un’incidenza media attorno al 15,6%.

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