Al mio paese morirono solo una ventina di persone. Tutto intorno una tragedia molto più grande. Mi ricordo un trattore, che il giorno 24 (o era il 25) verso sera girava e distribuiva buste di latte. Per tre giorni la gente era li, che non sapeva che fare. Poi quando si stava in qualche modo organizzando, mio padre aveva appuntato il muratore per sistemare la casa che era crollata solo parzialmente, una cosa incredibile, all’improvviso, prime pagine, televisioni, giornalisti, gente da tutto il mondo che voleva darci una mano e infine l’esercito. A questa sincera solidarietà degli italiani non ci eravamo veramente abituati. Quelli sono, erano, i paesi delle rimesse, di emigrati, paesi abitati da montanari che in qualche modo badavano al sodo. Ma quella solidarietà era sincera, volevano aiutarci a risollevarci, volevano consolarci, avevano compassione e noi veramente volevamo solo, magari, che ci rifacessero le case. Ma no! Per forza hanno voluto portarci lo sviluppo perché non era giusto che ci fosse tutta quell’immigrazione e che quelle strade fossero così scalcagnate. Insomma il terremoto era vero.

Dopo dodici anni, ero al nord, per lavoro, ero alla presentazione di un libro di un noto giornalista, l’inferno mi sembra, e li vidi le stesse facce, le stesse persone che quando portavano gli aiuti che ci abbracciavano ed emozionati ci consolavano, partecipi della nostra disperazione, erano li arrabbiati con noi, che volevano solo le case, e che veramente le avevamo anche costruite in buona parte, perché eravamo dei lazzaroni, imbroglioni meridionali con una rabbia forte pari alla compassione del terremoto. Allora, solo allora, ho capito che noi terremotati abbiamo avuto una funzione terapeutica: quei morti e quella solidarietà sono serviti per mettersi l’animo in pace, per sentirsi più umani. Ecco noi che eravamo lì, siamo stati traditi. il terremoto è stato tradito. Hanno ammazzato i nostri paesi. Come dei vampiri hanno succhiato la linfa vitale e al posto delle macerie hanno lasciato dei paesi fantasmi. Una volta in quei paesi si decideva e si viveva. Oggi sono un’immensa periferia che vive, trascinandosi senza identità, di quei pochi riflessi e delle poche risorse che possono venire dalle città. Se l’Italia fosse un unico organismo allora la Campania sarebbe un sistema e Salerno un organo e, infine, questi paesi un capillare, o un alveolo di cui si può fare a meno, si può togliere o estirpare. Però l’organo, il sistema e l’organismo ancora non si sono resi conto che se vengono estirpati tutti i capillari all’ora bisognerà amputare e tutto sarà compromesso.

Michele Zecca, estratto dal blog “Comunità provvisoria

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