E’ davvero uno strano dibattito quello che si è aperto nella rete all’insegna dell’interrogativo: “No-B-Day” sì, No-B-day-no”. Qualcuno si chiede sei sia giusto convocare una nuova manifestazione nazionale contro il Cavaliere, qualcun altro aggiunge che la prima resta un evento irripetibile, una icona perfetta da non mettere a rischio con il tentativo di un bis che potrebbe non riuscire altrettanto bene. Sembra quasi che la tentazione contemplativa rischi di prevalere sull’esigenza di agire.
Ora, prese singolarmente tutte queste obiezioni hanno un qualche fondamento di senso, ma guardate nella loro complessità non ne hanno nessuno. Si potrebbe partire dal terreno della celluloide, per esempio: nei tempi moderni i sequel vengono girati sempre insieme ai prequel, incassano più i bis che le anteprime, e si strutturano in trilogie, quadrilogie, saghe. Ecco, il No-B-day dovrebbe diventare una piccola epopea, un rito propiziatorio che accompagna il crepuscolo di una stagione antica, e prepara l’avvento di una nuova. Il nostro giornale in quel prequel ebbe un qualche ruolo di stimolo: ci piacerebbe molto poter tornare un strumento di servizio per chi vuole mettersi in moto.
Deve esserci qualcosa di strano, in questo paese, se salta fuori che molti – a cominciare da quelli che dovrebbero farla – hanno una curiosa considerazione dell’opposizione. A tutto servirebbe, tranne al suo scopo primario: opporsi ad un governo non gradito. Qualcuno pensa che sia un ufficio di collocamento, qualcun altro la intende come un parcheggio di lunga sosta o una sala di attesa in cui attendere la chiamata, altri ancora la immaginano come una collezione di istantanee e di polaroid, medaglie da appendersi al petto, forse per poter dire, un giorno, “io c’ero”. Ma sempre e comunque, uno stato di attesa. Forse è giunto il momento di recuperare l’idea che l’opposizione dovrebbe essere invece un luogo dinamico, in primo luogo per i partiti che ne fanno parte, una fucina di idee, una scuola quadri di talenti. Quando gli oppositori presunti si perdono nelle fumisterie del politichese e nei giochi di palazzo, l’elettrochoc della piazza è sempre utile. Questo furono i girotondi, questo è stato l’effetto dell’irruzione della scena del popolo viola, prima che il centrosinistra sprigionasse il suo effetto narcotico su entrambi i movimenti. Una cosa è certa: Berlusconi da solo non se ne va. E se i partiti di opposizione si acconciano all’idea che bisogna aspettare che la pera cada dall’albero, e che il grande venditore abbandoni la scena per esaustione, accadrà che un altro leader di centrodestra (ad esempio Tremonti) si prepari ad ereditare il blocco sociale che il centrodestra ha saputo costruire con grande abilità in questi anni.
La prima risposta al dibattito, dunque, è degna di monsignor de Lapalisse: finchè sarà in carica il governo Berlusconi, sarà opportuna una manifestazione che ne auspica la fine. E lo è a maggior ragione in questo momento, molto più che un anno fa. Oggi il racconto del berlusconismo sembra uno specchio infranto, un caleidoscopio multicolore che restituisce una serie di immagini frammentate e distorte, prive di coerenza. Non c’è più un filo logico forte nella narrazione del centrodestra: il grande sogno liberista è morto nella culla, la grande favola della riduzione delle tasse è diventata ormai una burla per bimbi creduli, l’utopia federalista adesso è un randello, che fra l’altro viene agitato in primo luogo contro i governatori meridionali di centrodestra. In poche parole: i tre pilastri su cui un anno fa si reggeva l’impalcatura dell’asse fra il Pdl e la Lega sono tutti e tre lesionati o pericolanti.
E poi è arrivata la crisi. Il propagandismo berlusconiano ha prodotto i suoi frutti migliori nella prefigurazione di improbabili età dell’oro, tempi di vacche grasse e di grande abbondanza di ricchezze da ridistribuire. Ecco il vero motivo per cui il presidente del consiglio non è strutturalmente attrezzato per vivere il racconto della crisi. Questo lavoro riesce molto meglio ai nuovi millenaristi, il dottor Tremonti, saggista bestsellerista della “grande paura”, e i templari leghisti, avventisti del secessionismo moderno.
Cosa serve per mostrare la debolezza di questi protagonisti? In primo luogo l’irruzione sulla scena di un altro racconto. La rappresentazione di una nuova generazione, che fuori da ogni ideologia avverte che il tempo è cambiato. Il nostro Federico Mello, ha raccontato in un bel libro (“Viola”, Aliberti editore) il dettaglio del primo indimenticabile NO-B-Day: una manifestazione propiziata da web cantautori, blogger, e tecno-casalighe d’assalto. Un incontro felice fra diverse generazioni, diversi codici, diverse storie. Quella manifestazione riuscì a far emergere una lingua moderna: un corteo, raccontammo, che sembrava stratificato, costruito sull’architettura della rete più che sull’antico telaio delle manifestazioni novecentesche. Quella grande, pacifica, non violenta folla di persone riuscì a bucare le maglie strette della struttura mediatica. L’onda lunga del No-B-day, però fu subito oscurata dalla nube del caso Tartaglia: quello che non si poteva cancellare andava sostituito. Seguirono tentativi di criminalizzazione della rete, e la spettacolare strumentalizzazione del dissennato attentato contro il presidente del consiglio. Ecco perché preoccuparsi di rovinare un bel ricordo non ha senso. Bisogna che il film interrotto riparta esattamente nel punto in cui avevamo abbandonato i protagonisti. Nessun successo è garantito: per questo è interessante andare tutti allo zoo comunale, e vedere poi da vicino l’effetto che fa.

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