Regione Lombardia, l’avvocata e le ‘ovvietà culturali’ dell’antimafia

9 Agosto 2018

Oddio, le camere penali. La questione che le ha viste scendere in campo ultimamente è ben nota ai lettori del Fatto. Si tratta della nomina di una legale di fiducia di diversi condannati e imputati di mafia a membro del Comitato tecnico-scientifico antimafia della Regione Lombardia. Chi ha posto il problema di opportunità di questa nomina (tra cui il sottoscritto) è finito nel mirino: attacco alla dignità dell’avvocato, al diritto alla difesa e addirittura alla Costituzione. Ne è nato, con il rinforzo di opinionisti e singoli avvocati, un dibattito surreale da anni Ottanta.

Purtroppo per i censori, è bene chiarirlo, il problema è stato sollevato proprio da alcuni penalisti milanesi. Sono stati infatti loro a segnalare con sconcerto a esponenti delle istituzioni la nomina di Maria Teresa Zampogna, questo il nome del legale, nel comitato antimafia. Come è possibile che chi ha difeso Tizio e Caio, e giù i molti nomi che loro sapevano, si metta alla testa della lotta alla mafia? Dunque, non giustizialismo contro garanzie, eversione della Costituzione contro diritto. Ma, semplicemente, stupore di avvocati che conoscono situazioni e fatti e hanno – per fortuna, e come tanti – la cultura dell’opportunità, della distinzione dei ruoli. Altrimenti, forse, il problema non sarebbe sorto, o non sarebbe sorto così presto (io ad esempio, certo per mio limite, nulla sapevo della concreta attività dell’avvocato Zampogna). Nessun pregiudizio verso la professione quindi.

Nel precedente comitato, che ho avuto l’onore di presiedere, ho avuto come vicepresidente una avvocato, Paola Panzeri. Mentre del comitato di esperti antimafia nominato nel 2011 in Comune dal sindaco Giuliano Pisapia, e di cui pure sono stato presidente, faceva parte Umberto Ambrosoli, notoriamente avvocato. Anzi, proprio quest’ultimo caso può essere istruttivo per i nostri penalisti, visto l’esempio dato da un loro celebre collega, unanimemente considerato un garantista per antonomasia. Pisapia, cioè, non volle nel suo comitato magistrati in servizio nel distretto milanese, il che è intuitivo; ma non vi volle nemmeno giornalisti. E non certo perché non riconoscesse il diritto all’informazione. Ma perché riteneva opportuno evitare che un giornalista acquisisse informazioni riservate attraverso il lavoro del comitato, così alterando la concorrenza tra testate, ma soprattutto venendo schiacciato tra i nuovi doveri di riservatezza e il sommo dovere dei giornalisti, quello di “pubblicare le notizie”. Il sindaco, da garantista vero, applicò cioè il principio della distinzione delle funzioni, e dei potenziali conflitti di interesse, che fra l’altro proprio gli avvocati (dimostrando di averlo ben presente) hanno per decenni reclamato con riferimento agli incarichi dei magistrati. Proviamo ora ad applicare, solo con un esempio, quel principio al nostro caso.

La commissione antimafia della Regione Lombardia e il comitato scientifico che la supporta hanno dedicato nella scorsa legislatura regionale una parte consistente del loro lavoro alla questione dei beni confiscati. Uno dei casi più importanti in Regione è stato (ed è) quello della masseria di Cisliano (Milano), sulla quale diverse associazioni giovanili antimafia hanno ingaggiato una autentica battaglia fino a occuparla, per impedire che venisse vandalizzata per rappresaglia nella pubblica inerzia. La masseria era di proprietà della famiglia Valle. Ma l’avvocato Zampogna ha avuto tra i suoi clienti proprio un esponente di spicco di quella famiglia. Come si fa insomma a non vedere le questioni poste da questa nomina? La domanda prescinde dalla qualità della persona e dal diritto alla difesa. Tanto che Pisapia, a suo tempo, non si sognò nemmeno di entrare nell’anticamera del problema. Bobbio avrebbe parlato di “ovvietà culturali”.

Perché allora questa pressione? Perché questo assalto ai fatti e al buon senso?

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