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Il governo di larghe imprese: un regalo di oltre 80 miliardi

In riga - Confindustria: troppo “timido” sulla manovra, ma dal 2014 ha ottenuto una raffica di misure (poco efficaci)

Di Carlo Di Foggia e Marco Maroni
29 Agosto 2017

Vincenzo Boccia non si dà pace. Il presidente di Confindustria ce l’ha col governo di Paolo Gentiloni, timido nel sussidiare le assunzioni delle imprese. Questo nonostante il pezzo forte della legge di Bilancio 2018 sia proprio quello: dimezzamento dei contributi per i primi tre anni per i nuovi assunti con età fino a 29 anni (forse 32). Poi uno sconto del 3% “strutturale”, cioè per sempre. Sarebbe la quarta decontribuzione in 4 anni, ma Boccia è inconsolabile: vuole lo sgravio totale per tutte le assunzioni. “Quella del governo è un po’ timida, servono 20 miliardi in tre anni per assumere 900 mila giovani”, ha detto al Meeting di Cl a Rimini.

In realtà la prossima manovra ha la stessa sostanza di quelle precedenti: politiche dal lato dell’offerta (cioè favorevoli alle imprese), poco o nulla a sostegno dei salari. Va così dal 2011, ma la cosa si è accentuata con l’arrivo di Matteo Renzi al governo (febbraio 2014). Tre anni con Confindustria a dare la linea e lui a seguirla, demolendo le tutele sul lavoro. Nessun progetto di rilancio per il Paese, ma favori concentrati su singole categorie, industriali in primis. Sgravi e incentivi hanno regalato alle imprese solo nelle ultime due leggi di Bilancio, 2016 e 2017, 40 miliardi. Se si conta anche il 2015 il conto sale a 50. E a fine 2019 si supereranno gli 80 miliardi. Il risultato è una ripresa questa sì timida, la più bassa dell’area euro, Grecia esclusa.

Il Jobs act è il caso madre. A maggio 2014 Confindustria dettò i contenuti della riforma nel documento “Proposte per il mercato del lavoro e della contrattazione”; pochi mesi dopo una serie di emendamenti nella legge delega, copiati da quel testo, smantellarono l’articolo 18 e lo Statuto dei lavoratori (demansionamento più facile, controlli a distanza ecc.). Solo la decontribuzione triennale totale, per chi assumeva con contratto a tempo indeterminato, del 2015, e quella (biennale) ridotta al 40% nel 2016 costeranno 27,7 miliardi fino a fine 2017. Quest’anno le decontribuzioni (si è aggiunta anche quella totale per il solo Sud) e i vari bonus (tipo quello del programma “Garanzia giovani”) costeranno 7,8 miliardi. Dal 2014 – ha calcolato la Uil politiche economiche e territoriali – la spesa media annuale per questi interventi è stata di 4 miliardi e questo senza considerare la miriade di micro-incentivi. La nuova decontribuzione allo studio del governo costerà 580 milioni nel 2018, per poi salire a 2 miliardi nel 2019 per finire a 4 a regime dal 2021. Il totale fa 40 miliardi in un quinquennio. Un travaso di risorse dalla fiscalità generale alle imprese per sussidiare assunzioni che in parte ci sarebbero state comunque e che una volta tagliate hanno portato a un crollo dei contratti “stabili” (si fa per dire, senza l’articolo 18) e il peggio deve ancora venire: nel 2018 scadono gli sgravi del 2015. Con la nuova misura il governo punta a “300 mila nuovi assunti”, un livello di assunzioni nette che non si ebbe nemmeno nel 2015 con lo sgravio totale. I nuovi occupati si sono concentrati soprattutto tra gli over 50, e ogni anno è stato superato il record di precari.

Gli sgravi per gli acquisti di beni e le detassazioni varie sono costate ancora di più. Il super ammortamento per gli acquisti di impianti e macchinari, introdotto come incentivo fiscale “temporaneo” con la manovra 2016, quest’anno costerà quasi un miliardo, 1,2 l’anno prossimo. Ma anziché finire, lo sconto temporaneo è stato aumentato: è arrivato l’“iper ammortamento” per l’innovazione digitale e l’automazione del 250% (chi compra un macchinario da 100 mila euro rientra di 60 mila). La prima versione del super ammortamento non è che abbia prodotto miracoli: gli investimenti delle imprese sono saliti del 4% tra il marzo 2016 e il marzo 2017 (ma nel trimestre erano calati del 2,9%). In buona parte si è trattato di acquisti di automobili; chi ha potuto ne ha approfittato per cambiare i mezzi aziendali, mettendo le ali al mercato dell’auto. Nasce anche da qui lo scambio di amorosi sensi tra Renzi e l’ad di Fca, Sergio Marchionne, visto in questi anni.

La voce più pesante degli sgravi alle imprese, però, riguarda l’eliminazione della componente costo del lavoro dall’Irap (6 miliardi l’anno dal 2015) e – dal 2017 – il taglio di 3,5 punti dell’Ires, che solo quest’anno, con altre misure complementari, farà mancare allo Stato 8,3 miliardi. L’Ufficio parlamentare di Bilancio ha messo in guardia dai “rischi di sottostima della perdita di gettito” del super ammortamento. Il presidente dell’Istat, Giorgio Alleva ha spiegato, in Parlamento, che questi interventi aiuteranno in misura maggiore “le grandi imprese, quelle strutturate, le esportatrici e ad alta intensità tecnologica”, specie le “controllate estere”, un po’ meno le piccole e medie imprese. Il resto delle misure (lo leggete nella tabella sopra) presenta un conto da 50,4 miliardi solo nel triennio 2016-2019. E questo senza contare gli sconti alle imprese agricole.

In una crisi di domanda il governo e i suoi consiglieri hanno accolto la diligenza di Confindustria con l’idea che le aziende assumano e investano solo perché costa meno. L’idea che vendite e ordini crescano soprattutto se le famiglie, specie quelle a basso reddito, hanno soldi da spendere è stata ridotta a interventi spot come gli 80 euro in busta paga, che peraltro escludono gli incapienti. Grazie a questa costruzione ideologica il Pil dell’Italia è ancora 6 punti sotto il livello pre crisi, e all’appello mancano ancora 400 mila occupati.

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