Gilberto Caldarozzi, dalla Diaz alla Dia vince il manganello

27 Dicembre 2017

L’ultima manganellata in faccia che lo Stato infligge alle vittime del G8 di Genova: Gilberto Caldarozzi è stato nominato numero due della Direzione Investigativa Antimafia. Non si tratta di un’omonimia: è proprio quel Caldarozzi condannato in via definitiva a tre anni e otto mesi per falso. Avrebbe partecipato alla creazione di false prove dopo le violenze del G8 del 2001.

La nomina sarebbe stata decisa, riferiscono le cronache, da Marco Minniti. Che con questo gesto rivela i limiti di chi vorrebbe accreditarsi come leader e uomo delle istituzioni. Così come suscita dolore in chi ha assistito alle violenze del G8 – sangue, legamenti strappati, ossa frantumate, minacce sessuali, cori nazisti – il modo quasi furtivo con cui è stata presa la decisione: ignorata dalla politica (protestano gli onorevoli Andrea Maestri e Luca Pastorino di Liberi e uguali), scoperta per caso dal Comitato verità e giustizia per Genova. Il punto non è nemmeno Caldarozzi che, formalmente, può ricoprire quel posto. Il punto sono i governi e i vertici delle forze dell’ordine che si sono succeduti in questi anni. Insomma, lo Stato che dal primo giorno ha dimostrato di stare dalla parte di chi ha commesso le violenze. Contro chi le ha subìte. Alla faccia delle recenti dichiarazioni del capo della polizia, Franco Gabrielli: “Il G8 fu una catastrofe”.

Una ferita inferta alle vittime, a Genova, ai poliziotti con la fedina pulita. E a tutti gli italiani. Non è una questione personale, ma la vicenda di Caldarozzi è esemplare, a prescindere dalle sue doti di “cacciatore di mafiosi”. Lo stesso Caldarozzi che, sospeso dopo la condanna, trovò posto come consulente nella società pubblica Finmeccanica di cui era presidente proprio Gianni De Gennaro. Suo amico e capo della polizia ai tempi del G8.

Sberle su sberle in faccia alle vittime. Come i continui intralci a pm quali Enrico Zucca che indagarono sulle violenze. Come le vertiginose carriere dei poliziotti accusati: Francesco Gratteri al momento della condanna era diventato capo della Direzione centrale anticrimine; Giovanni Luperi era capo-analista dell’Aisi (il servizio segreto interno). Filippo Ferri, figlio di Enrico (l’ex ministro socialdemocratico) e fratello di Cosimo (sottosegretario alla Giustizia), guidava la squadra mobile di Firenze. Ancora: Fabio Ciccimarra, capo della squadra mobile de L’Aquila, o Spartaco Mortola capo della polfer di Torino. Carriere avallate o tacitamente accettate da governi e ministri che si sono succeduti al Viminale: Claudio Scajola (Berlusconi II), Giuseppe Pisanu (Berlusconi II e III), Giuliano Amato (Prodi II) e Roberto Maroni (Berlusconi IV). Oggi bisogna aggiungere Marco Minniti (Gentiloni).

In Italia chi viene condannato – e ha amici che contano – non viene solo reintegrato. Ma anche premiato.

Alle vittime resta la beffa della legge anti-tortura che prevede la prescrizione, richiede violenze reiterate e non punisce la tortura morale. Dice il magistrato Roberto Settembre: “Con questa legge la Diaz e Bolzaneto non sarebbero punite”. Potrebbe succedere di nuovo a tutti noi.

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