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Dopo Grossman la parola genocidio non è più tabù, ma la strage non si ferma

Dietro il genocidio niente
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BOCCIATI

Fatti, parole, fatti. Fatti che accadono e che si faticano ad interpretare finché non intervengono in soccorso le parole. Parole che combattono le une contro le altre per guadagnarsi l’egemonia semantica degli eventi, con la giusta convinzione di poterli inquadrare nell’orizzonte storico ma con l’ingenua presunzione di poterne modificare gli sviluppi. Così la parola genocidio ha combattuto con le unghie e con i denti per spuntarla contro i termini “guerra”, “massacro”, “strage”. Dopo 22 mesi di carneficina, dopo oltre 60mila morti, ebbene il duello linguistico sembra quasi essere giunto a conclusione: quello che si sta consumando a Gaza è a tutti gli effetti un genocidio.

David Grossman, uno dei più importanti scrittori contemporanei, fine intellettuale israeliano, profondamente legato al proprio Paese, ha rotto lui stesso gli indugi a riguardo, assegnando al termine “genocidio” l’ultima manciata di punti necessaria per imporsi come definizione di quanto si sta verificando nella Striscia: “Per anni ho rifiutato di utilizzare questa parola: “genocidio”. Ma adesso non posso trattenermi dall’usarla, dopo quello che ho letto sui giornali, dopo le immagini che ho visto e dopo aver parlato con persone che sono state lì. Ma vede, questa parola serve principalmente per dare una definizione o per fini giuridici: io invece voglio parlare come un essere umano che è nato dentro questo conflitto e ha avuto l’intera esistenza devastata dall’Occupazione e dalla guerra. Voglio parlare come una persona che ha fatto tutto quello che poteva per non arrivare a chiamare Israele uno Stato genocida. E ora, con immenso dolore e con il cuore spezzato, devo constatare che sta accadendo di fronte ai miei occhi”.

Il dolore profondo, il senso di disgregazione esistenziale che può provocare l’utilizzo di questo termine in un israeliano, uomo di testa e di cuore, che ha speso la sua intera vita nella perorazione di una convivenza virtuosa tra i due popoli, merita un rispetto profondo. Ma proprio alla luce di questo, è inevitabile tornare all’influenza reale che le parole hanno o possono avere sui fatti. Moltissima a volte. Quasi nulla altre volte. E, ahinoi, duole constatare che la querelle linguistica che ha tenuto occupato l’intero dibattito occidentale in tutti gli ultimi mesi, nonostante abbia visto trionfare la definizione più radicale e che si supponeva dovesse cambiare il corso degli eventi, ha spostato poco o nulla.

La diatriba semantico-filologica, anzi, ci ha tenuti così impegnati e ci ha talmente convinti che il massimo contributo da dare fosse schierarsi in questa contesa, da astrarci completamente dal piano di realtà. Aumentare gli iscritti al club del genocidio non ha cambiato di una virgola quello che accade a Gaza. Cessate il fuoco è diventato una specie di mantra privo di significato rivolto al cielo: quello stesso cielo dal quale dovrebbero cadere gli unici aiuti umanitari che riescono a raggiungere un popolo che sta letteralmente morendo di fame; i coloni israeliani insistono a fare il bello e il cattivo tempo con rinnovata arroganza, ormai anche a favore di camera; il governo israeliano continua a bombardare senza remora alcuna; i Paesi occidentali non cambiano nemmeno un dettaglio dei forti e fruttuosi accordi commerciali con Israele.

E così, pur nell’atrocità di una sentenza morale di questo tipo, la distruzione palestinese prosegue senza intoppi sotto l’ombrello della parola genocidio. Almeno, mentre loro muoiono, la nostra coscienza fresca di bucato lessicale se ne può stare tranquillamente stesa al sole.

Voto: N. C.

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