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Bilancio europeo, ha ancora senso salvare Von der Leyen?

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Il metodo è ormai collaudato: salvare la pelle, cioè il proprio potere, e affossare l’Europa. Naturalmente dietro allo scudo delle migliori intenzioni, a partire da quelle che giustificano i cambiamenti strutturali nel Quadro Finanziario Pluriennale (Qfp), ossia il bilancio settennale dell’Unione europea. Questione non banale: si tratta della legge più importante dell’UE, che sancisce fondi e programmi che dovrebbero garantirne i principi e la direzione. È grazie alla trattativa sul bilancio che Ursula von der Leyen è riuscita a salvarsi da un voto di sfiducia, la settimana scorsa, di cui non si è parlato a sufficienza: la prima presidente dell’Unione europea a essere sottoposta a una mozione di censura, secondo molti membri del parlamento che l’ha eletta (e non solo) ha tradito quel consesso con condotte opache nonché opposte ai principi che dovrebbero guidarla. Il voto è stato superato – da rilevare la spaccatura della politica nazionale, con Lega e M5S che si sono espressi per fare cadere la presidente nonostante la vicepresidenza esecutiva affidata a Raffaele Fitto – è anche grazie alla trattativa imbastita con i Socialisti, usciti dal loro letargo semipermanente per battere un colpo.

Questo l’affare: in cambio del loro sostegno, von der Leyen avrebbe confermato il Fondo sociale europeo come pilastro del nuovo bilancio, aggiungendo la promessa di un metodo di ripartizione degli investimenti che tenesse conto del ruolo fondamentale delle regioni a cui quei denari sono indirizzati, al posto di una centralizzazione che ignora bisogni, istanze e voci dei luoghi e delle persone di cui dovrebbe occuparsi.

Bell’affare, non c’è che dire: nonostante e a dispetto di frasi e parole ad hoc studiate per spingere sulla suggestione della dimensione sociale e ambientale (dunque per “ripagare” i Socialisti), la presidente ha fatto esattamente il contrario. I denari sono infatti in un maxi fondo che riunirà diversi programmi con dotazioni preassegnate a livello nazionale. Tradotto: gestione centralizzata, altro che co-progettazione basata sui luoghi. L’attuazione passerà infatti attraverso 27 piani regionali e nazionali, con un nuovo strumento che renderà “flessibile” il bilancio: da un lato insomma l’irrigidimento centralista, dall’altro la possibilità di giocare con i fondi spostando destinazioni e voci. I 540 programmi attualmente esistenti diventeranno 27 piani di “partenariato nazionali e regionali”, che copriranno tutte le materie fondamentali, dalla Politica agricola comune al Fondo europeo di sviluppo regionale e quello di coesione; dal Fondo sociale europeo alla gestione delle frontiere europee, delle migrazioni al sostegno della Ue alla sicurezza interna. Più o meno tutto quello che determina la vita del Continente, insomma, con il rischio che vengano accomunate “missioni” che c’entrano poco e niente, come difesa e coesione.

Il risultato è esattamente ciò che si voleva evitare: da un lato la rinazionalizzazione dei fondi; dall’altro una flessibilità, teoricamente per poter agire in caso di emergenze, che implica inevitabilmente minor trasparenza, dettaglio particolarmente rilevante in presenza di una Commissione appena finita sotto censura proprio per la sua opacità. A queste condizioni la grande mole di denari mobilitata dal bilancio difficilmente sarà utilizzata davvero per la vita delle persone, con un metodo che le renda protagoniste e che misuri quindi anche i risultati in termini di effettivi cambiamenti: l’acclamato Next generation Ue su questo ha settato uno standard da non replicare. L’interrogativo serissimo che oggi bisogna porsi, mentre ci si prepara a un lungo negoziato, è quindi questo: la sopravvivenza politica di von der Leyen, resa possibile anche dai Socialisti, avviene a detrimento del senso stesso della Ue? E come evitarlo?

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