“Siete mucche da mungere”. Ed è sciopero a Max Mara
“Ci hanno chiamate mucche da mungere. Ci hanno detto che siamo grasse, obese, e ci hanno consigliato gli esercizi da fare a casa per dimagrire. Ci pagano praticamente a cottimo e controllano anche quante volte andiamo in bagno, ma siamo tutte donne, abbiamo il ciclo: è disumano. Ora basta”. Alla Manifattura San Maurizio di Reggio Emilia, fiore all’occhiello del gruppo Max Mara, le lavoratrici hanno deciso di parlare. Per la prima volta, dopo oltre quarant’anni, la Filctem-Cgil ha proclamato uno sciopero “storico” di due giornate, rompendo il muro di silenzio in una fabbrica simbolo dell’eccellenza italiana.
Dietro la narrazione della “sartorialità italiana”, dell’artigianato d’eccellenza, delle campagne pubblicitarie patinate, le lavoratrici raccontano un’altra verità. “Non ce la facciamo più, sono anni che sopportiamo i soprusi in silenzio”, ci dice una delle sarte con la voce rotta, a patto di restare anonima. Non è paura, è la certezza delle ripercussioni. Le stesse che subiscono quotidianamente in fabbrica. Dentro i reparti dove si confezionano i cappotti sfoggiati nelle passerelle di tutto il mondo, si vive – denunciano – un clima tossico, fatto di pressioni continue, insulti e turni massacranti. “Se chiedi di ascoltare un po’ di musica mentre lavori, ti rispondono che sei lì per produrre, non per godertela. E se un giorno vai più piano, ti fanno sentire colpevole. Ogni minuto conta, ogni gesto è cronometrato. Siamo sotto sorveglianza costante”, aggiunge un’altra sarta.
In totale siamo a 210 addetti, in stragrande maggioranza donne, mani esperte che da anni danno forma al marchio. Ma quella professionalità, dicono, non viene riconosciuta: “Pretendono che produciamo almeno un tot di capi al mese. Se non ci riusciamo, scattano i richiami e le pressioni aumentano. Abbiamo dolori alla schiena, al collo, agli occhi. Ma ciò che pesa di più è l’umiliazione continua. Un giorno dopo l’altro, ci sentiamo svuotate”. La scelta di scioperare è arrivata dopo mesi di confronto senza risposte concrete. Ma non è solo una protesta: è una richiesta di ascolto, un grido collettivo che rivela cosa può celarsi dietro i celeberrimi cappotti di Max Mara, capi venduti a migliaia di euro nelle boutique di tutto il mondo. E raccontano una storia fatta di “sfruttamento”, “pressioni psicologiche” e un mancato riconoscimento della loro professionalità che cozza alquanto con la narrativa del brand, che fa dell’artigianalità un vanto e del Made in Italy la sua bandiera. Per questo abbiamo provato a chiedere conto di tutto ciò alla San Maurizio ma l’azienda ci ha rimandato a Max Mara per un commento ufficiale: “Non abbiamo dichiarazioni da rilasciare in merito”, è stata la risposta.
Le lavoratrici non si stupiscono: “Lavoriamo qui da oltre 20 anni – raccontano – Siamo pagate a cottimo, anche se l’azienda evita di definirlo così ufficialmente. Per guadagnare qualcosa in più dobbiamo produrre il massimo possibile, le pause, ci dicono, le dobbiamo ‘recuperare’ lavorando più in fretta”. Tutto questo ha un prezzo: “La nostra salute. La maggior parte di noi ha ormai problemi fisici seri: spalle, tendini, tunnel carpale, cervicale… arriviamo alla pensione che siamo rotte”. Al centro delle rivendicazioni, c’è la mancata applicazione del contratto nazionale del Tessile Industria da parte dell’azienda del gruppo Max Mara, che preferisce un regolamento aziendale interno. Questo, secondo la Filctem-Cgil, si traduce in minori tutele e, soprattutto, in stipendi non adeguati all’alta professionalità richiesta, ai ritmi e alle condizioni di lavoro. “Mediamente parliamo di stipendi intorno ai 1.300-1.350 euro al mese”, spiega Erica Morelli, segretaria della Filctem provinciale, scesa in campo al fianco delle lavoratrici. “In busta paga si applica il minimo tabellare e poi c’è un sistema definito ‘K100’ per valutare la produttività delle lavoratrici: se superano il minimo richiesto, hanno un’integrazione economica. Tutti i nostri sforzi per discutere un contratto integrativo di secondo livello sono stati vani”. Ma con l’avanzare dell’età e l’usura fisica, mantenere i ritmi diventa più difficile, con il rischio di essere penalizzate. “Pretendono che produciamo almeno un tot di capi al mese. Se non ci riusciamo, scattano i richiami e le pressioni aumentano. Non esiste alcun riconoscimento del carattere usurante del nostro lavoro, neanche da parte dell’Inail”, denunciano le lavoratrici. Le umiliazioni sono all’ordine del giorno: “Arriviamo a essere controllate perfino quando andiamo in bagno: segnano i nostri nomi, ma siamo tutte donne, abbiamo il ciclo. È disumano”. E ancora: “Un giorno una collega è inciampata ed è caduta durante il tragitto per raggiungere il pullman che ci porta in mensa e, invece, di soccorrerla, l’amministratore l’ha accusata di aver corso e poi l’ha convocata in ufficio per un richiamo”.
Morelli conferma il quadro: “Sappiamo da tempo che succedono episodi molto spiacevoli e la situazione è diventata ormai intollerabile, ma la Direzione aziendale ha alzato un muro”. E al momento è rimasto inascoltato anche lo sciopero indetto il 21 maggio scorso, che ha visto un’alta adesione: finora, l’azienda “non ha risposto minimamente, dispiace parecchio ma questo silenzio è eloquente”, commenta Morelli. Il tavolo resta aperto: “Vogliamo risolvere la situazione. Dentro questa fabbrica ci sono mamme single, vedove, donne con mutui da pagare e figli da crescere”. Infine, la denuncia più amara: “Chi lucra sulla pelle delle persone dovrebbe vergognarsi. Noi stiamo male anche psicologicamente, oltre che fisicamente. C’è chi prende farmaci, chi va dallo psicologo o dallo psichiatra. Ma continuiamo, perché abbiamo bisogno di portare a casa uno stipendio. E intanto, ci ammaliamo, giorno dopo giorno”.