Caro papà, mi spiace che abbiamo perso la battaglia sul lavoro (ma speriamo in un miracolo al referendum!)

Avevo otto anni quando mio papà, avvocato giuslavorista, venne a scuola e mi fece chiamare fuori dalla classe, una cosa mai successa prima e che non sarebbe più successa dopo. Veniva a darmi una bella notizia: aveva vinto una causa per il reintegro di alcuni operai, ingiustamente licenziati. È stato lì – nel corridoio della scuola elementare Kennedy di Mantova, con il sole che filtrava dalle finestre e provava a rallegrare il pavimento di linoleum – che ho ricevuto la prima lezione sul lavoro, “una cosa più importante dello stipendio”. Ne sarebbero seguite molte altre, che si facevano più articolate e interessanti via via che crescevo, fino all’università quando ho preso in mano un manuale di Diritto del lavoro e una copia sgualcita dello Statuto dei lavoratori. Il funerale di mio padre è stato pagato in lire: non ha fatto in tempo a vedere lo scempio che delle tutele è stato fatto, né il progressivo impoverimento dei salari. Era cresciuto nella stagione delle conquiste, come il rito e il tribunale per il lavoro, con tempi più brevi e garanzie speciali, quando il collocamento era pubblico. L’introduzione del contratto di formazione (c’era Craxi) e soprattutto il pacchetto Treu (governo Prodi) però aveva fatto in tempo a vederli e a criticarli, aveva capito che ci sarebbe voluto poco per smantellare il sistema delle tutele. Non gli sfuggì che quella prima picconata ai lavoratori era opera di un governo di centrosinistra, tendenza che si sarebbe allegramente confermata nei decenni successivi. Il resto della slavina, però, dalle leggi di B. alla Fornero (i tecnici di Monti) per arrivare al Jobs act (governo Renzi) e alle porcherie dei camerati ripuliti al potere, se l’è risparmiato.
Mi chiedo spesso cosa penserebbe oggi, anche in questi giorni in cui una presidente del Consiglio prende in giro l’opinione pubblica con il trucchetto del “vado al seggio ma non ritiro la scheda” per non contribuire al quorum, alla vigilia di un referendum che prova a fare qualche passo indietro rispetto a una deriva mercatista che pare non arrestarsi. Tutti danno per scontato che il quorum non sarà raggiunto e, numeri alla mano, è probabilmente vero. Conta il fatto che se ne sia parlato così poco, che il dibattito pubblico sia monopolizzato da altro (perfino da fatti di cronaca vecchi di quasi vent’anni). Pesa, e non poco, anche la circostanza che, in una realtà sempre più frammentata, non ci sia più una società del lavoro e dunque una coscienza diffusa del diritto ad avere diritti. Ciascuno tira a campare, in una rassegnazione collettiva che pare inscalfibile. Sempre più lavoratori poveri, la ricchezza concentrata in sempre meno mai: il lavoro che fonda la Repubblica è lettera morta, ridotto a una data simbolica all’inizio di maggio quando sempre più persone che non si occupano di servizi essenziali sono costrette a lavorare. E si digerisce tutto perché i lavoratori non hanno più leve (e rischiano la galera se protestano). Eppure, come ricordava il professor Brancaccio sull’Unità, le stesse istituzioni che per anni hanno propugnato la deregulation, ammettono che questa politica non crea posti di lavoro: “Già la Banca mondiale nel 2013 riconosceva che ‘l’impatto della flessibilità del lavoro è insignificante o modesto’. Il Fondo monetario internazionale, nel 2016, è giunto alla conclusione che le deregolamentazioni del lavoro ‘non hanno effetti statisticamente significativi sull’occupazione’”. Eppure, a leggere i giornali di queste settimane, è tutto un affannarsi a difendere politiche fallimentari, per interessi di bottega, propri o in conto terzi.
Caro papà, mi dispiace che abbiamo perso la battaglia per il lavoro come valore costituzionale: era una battaglia per una società più equa e quindi più felice. Speriamo in un miracolo del fine settimana o almeno in un segno forte di risveglio: prima o poi qualcuno dovrà spiegare che in gioco non ci sono solo quei vecchi arnesi novecenteschi che rispondono al nome di uguaglianza e giustizia, ma la sopravvivenza della società.