I Centri in Albania trasformati in Cpr: altro sfregio al diritto
“Disposizioni urgenti per il contrasto dell’immigrazione irregolare” recita il titolo del decreto che, nella disattenzione assoluta dei mass media e con l’ormai consueta compressione della discussione parlamentare, ieri è diventato legge. Di urgente, per essere chiari, non c’è assolutamente nulla, salvo l’esigenza di salvare la faccia al governo Meloni e alla sciagurata avventura albanese, costata poco meno di 1 miliardo e diventata l’ultimo drammatico tassello dell’erosione dei diritti delle persone migranti.
Si tratta, in sostanza, della trasformazione del protocollo Italia-Albania annunciato un anno fa, che avrebbe dovuto deviare l’arrivo di migranti, e che mai ha funzionato, perché giuridicamente fallato. L’esecutivo decide ora un cambio di destinazione d’uso, trasformando le strutture albanesi in Cpr, Centri per la permanenza e il rimpatrio, sulla stregua dei 10 già esistenti in Italia: galere, per farla breve, in cui anche senza aver commesso reati, a parte l’ingresso in Italia, chi è considerato “clandestino”, perché non ha ancora chiesto protezione, ha un permesso di soggiorno scaduto o non ha ricevuto asilo, viene rinchiuso fino a 18 mesi. Le persone migranti già nei Cpr – 6.700 nel 2023, ultimo dato disponibile – potranno essere prese senza alcuna ragione e deportate in Albania in attesa del rimpatrio. A quale scopo non è chiaro: quand’anche fossero effettivamente rispedite nei loro Paesi d’origine, la partenza avviene dall’Italia. Il che rende evidenti almeno due cose: le ragioni per questo cambiamento vanno cercate nella propaganda (“I centri per migranti in Albania funzioneranno, dovessi passarci ogni notte da qui alla fine del governo italiano”, disse Giorgia Meloni davanti alla costosissima débâcle) e l’urgenza, insieme all’assenza di dibattito, servono a coprire le forzature giuridiche e costituzionali del progetto.
Prima violazione non banale: per modificare un protocollo internazionale, che coinvolge a questo punto una molteplicità di soggetti, anche in Albania, non si potrebbe ricorrere a un decreto; occorrerebbe invece riaprire tutta la discussione e la ratifica, cioè dinamite politica. Ergo, si soprassiede. Ma c’è altro, forse persino più grave in prospettiva. La modifica infatti introduce una nuova limitazione della libertà personale – violando il principio di uguaglianza del dettato costituzionale – di chi è costretto nei Cpr attraverso un atto amministrativo senza garanzie. Tradotto: persino tra gli ultimi ci sarà chi starà ancora peggio, perché è del tutto evidente che la reclusione in Albania comporta difficoltà maggiori per esempio nella comunicazione con gli avvocati e dunque nell’esercizio delle proprie prerogative. Il tutto, come denunciato a più riprese dall’opposizione, senza alcuna trasparenza su numeri, reati, costi: il governo non comunica le presenze, le ragioni per i rimpatri, la spesa per l’andirivieni nell’Adriatico. Si piegano insomma Costituzione, leggi e decenza a un feroce ideale di sicurezza e di ordine pubblico, che va a braccetto con la torsione autoritaria delle misure del decreto sicurezza, riservate anche ai migranti in quanto detenuti. La penalizzazione dei comportamenti non ha infatti a che vedere con il diritto penale, ma risponde a una visione del mondo impastata di odio per le diversità e per chi sta peggio: i migranti sono insomma gli apripista di uno slittamento di garanzie che pensavamo intoccabili. Il governo ha chiesto l’ennesimo voto di fiducia, chiudendo la possibilità di ogni dibattito. Ma è facile prevedere ricorsi alla Corte costituzionale: in ballo non ci sono solo i rimpatri di una manciata di poveri cristi, ma le fondamenta democratiche del Paese. Teniamo la luce accesa.
Per il Forum Disuguaglianze e Diversità