Gaza, anche se noi ci crediamo assolti siamo per sempre coinvolti
Non posso e non voglio tacere: s’intitola così il libro intervista in cui Liliana Segre torna a parlare della guerra a Gaza. Le parole che usa la senatrice a vita, sopravvissuta all’Olocausto e vittima di inaccettabili attacchi antisemiti, sono inequivocabili: se “mostruoso” è il fanatismo sanguinario di Hamas, “repulsione” è il sentimento che le suscita il governo Netanyahu. Il suo “Non posso e non voglio tacere” dovrebbe essere un imperativo per tutti noi rappresentanti di quell’Occidente evocato e convocato a ogni piè sospinto nel dibattito pubblico addirittura come discrimine etico, brandito come una spada in una moderna crociata che offende, prima della buona fede, l’intelligenza. Proprio perché crediamo, da occidentali, nei valori della cultura europea non possiamo più tacere. Il governo israeliano annuncia l’occupazione della Striscia con la deportazione “volontaria” dei superstiti, e nelle stesse ore il Parlamento europeo si rifiuta anche solo di discuterne. Mentre siamo vivi, dall’altra parte del Mare nostrum, si sta consumando una carneficina che non accenna a finire, e che ci preoccupa solo per come viene definita! Ma se non cadiamo nel trabocchetto del dizionario, quei crimini ogni giorno ci pongono con maggiore urgenza il dilemma delle nostre vite che sanno eppure vanno avanti in un’indifferenza disumana e colpevole. I media non ci fanno vedere quello che accade, i giornalisti intrappolati a Gaza continuano a morire, ma sui social si possono trovare le immagini di quel che quotidianamente succede nella Striscia: i corpi mutilati, bruciati, gli ospedali bombardati, le aggressioni indiscriminate contro una popolazione civile intrappolata ad aspettare la morte, le navi che portano aiuti umanitari attaccate. Non si entra e non si esce da Gaza, si muore anche di fame perché non c’è più cibo e non ci sono più medicine. E mentre tutto questo succede c’è gente che specula sul numero dei morti, perché il ministero della Salute e della Protezione civile di Gaza è sotto il controllo di Hamas, e alla fine qualcuno osa dire che ogni maschio sopra i 13 anni è comunque un potenziale terrorista.
La nostra vergogna collettiva si chiama silenzio: la scelta del Parlamento europeo di lunedì conferma la viltà complice dei Paesi che si proclamano democratici. Il senso di colpa per le responsabilità nell’Olocausto ha generato un cortocircuito che deve essere interrotto subito: è lo Stato ebraico il responsabile di questo massacro, innescato dai macellai di Hamas con il pogrom del 7 ottobre. L’antisemitismo risvegliato dalle azioni del governo Netanyahu va combattuto con fermezza, ma con la stessa fermezza l’Europa deve farsi sentire. Il rivoltante progetto di fare del lungomare di Gaza un resort con vista carneficina, dichiarato senza imbarazzi da Trump e Netanyahu, va fermato dalla comunità interazionale. E invece non si parla nemmeno di sanzioni, i nostri politici hanno dichiarato (Tajani) di infischiarsene dei provvedimenti dell’Aia, la premier tace. Siamo stati complici troppo a lungo, le colpe degli inerti pesano anche su di noi. Nei giorni scorsi un gruppo di intellettuali ha promosso per venerdì 9 maggio – Giornata dell’Europa – una mobilitazione social, con l’hashtag #ultimogiornodigaza: “Per rompere il silenzio colpevole useremo la Rete, che è il solo mezzo attraverso cui possiamo vedere Gaza, ascoltare Gaza, piangere Gaza. Perché possano partecipare tutte e tutti, anche solo per pochi minuti”. Senza il mondo Gaza muore e moriamo anche noi, scrivono gli organizzatori. L’ultimo giorno di Gaza è anche l’ultimo giorno delle nostre coscienze: facciamoci sentire. Prima o poi ci verrà chiesto conto, proprio come è successo nel secolo scorso, della nostra indifferenza: anche se ci crediamo assolti, saremo per sempre coinvolti.