I 5 referendum di giugno: come cambiare la vita alle persone
L’occasione è di quelle che non capitano spesso: la possibilità per ognuna e ognuno di noi di cambiare concretamente la condizione di milioni di persone. Tutto insieme, in una botta sola. La buona notizia è che basta andare a votare, il prossimo 8 e 9 giugno, per i referendum promossi dalla Cgil; quella cattiva è che sentirete i soliti, noti e non, dire che le priorità ora sono altre, basta con ’sto Jobs Act, e che tanto vale andare al mare perché il quorum non si raggiungerà mai. Diciamolo subito allora: è proprio questo atteggiamento a picconare l’opportunità di restituire potere alla democrazia, dunque a noi tutti, perché il referendum è invece lo strumento con cui far pesare volontà e diritti. Nel caso dei cinque quesiti di giugno si tratta di correggere storture macroscopiche e dannose, che con errori clamorosi sono diventate legge di cui ora fanno le spese lavoratrici e lavoratori.
Sono 3 milioni e mezzo, per esempio, quelli assunti in imprese con più di 15 dipendenti a partire dal 7 marzo 2015 che possono essere licenziati costruendo un caso infondato. Già: anche se un giudice stabilisce che l’azienda non ne aveva il diritto, chi lavora può essere liquidato con un assegno senza essere reintegrato al proprio posto. Una norma immorale, in primis. Ma anche – ed è un punto essenziale – una norma che penalizza gli imprenditori onesti, quelli che si comportano bene e subiscono la concorrenza sleale di chi non sa stare sul mercato. Il primo quesito sulla scheda, che chiede di abrogare la legge, cambierebbe quindi due cose cruciali: eliminerebbe l’incentivo a imbrogliare e restituirebbe al magistrato il potere di stabilire le condizioni di deterrenza per evitare comportamenti scorretti. Nelle imprese più piccole, invece, l’assurdità è che il giudice non può decidere l’entità dell’indennizzo che spetta al lavoratore ingiustamente (ricordiamolo sempre) licenziato, perché la norma fissa un tetto a sei mesi di stipendio. Ecco allora che il secondo quesito restituisce al magistrato il potere di deterrenza – evitare comportamenti sleali sanzionandoli duramente – e di decidere in base alle effettive condizioni della persona.
Che dire poi di quei quasi 2 milioni e mezzo di lavoratori precari e dell’indecente possibilità di mantenerli tali senza indicare le esigenze strategiche che lo motivano e al di fuori del contratto collettivo? E cioè di coltivare il precariato già drammatico, grande alleato di imprese senza orizzonte, penalizzando indirettamente quelle buone? Il terzo quesito ha, appunto, come effetto il ripristino di quei requisiti. Mentre il quarto modifica le norme sulla sicurezza del lavoro, in un Paese in cui muoiono di lavoro tre persone ogni giorno: è fondamentale per l’economia e per le vite umane che controlli e ispezioni si facciano, che le imprese appaltanti rispondano delle loro scelte, che si smetta di chiamare il giorno prima l’azienda per informarla del controllo, come troppo spesso è prassi. In un ecosistema più sano e giustamente competitivo, un domani potrebbero vivere e essere occupati come italiani gli stranieri residenti legalmente in Italia da 5 anni: il quinto quesito, che coinvolge direttamente 2,5 milioni di persone, chiede di abbassare il requisito degli anni per la cittadinanza, da 10 a 5. Si tratta di un dovere di dignità, ma anche di uno straordinario serbatoio di lavoratori qualificati, di vitalità, entusiasmo e idee: basti dire che il 37% dei “nuovi” italiani fino a 19 anni ha origini straniere, ed è la salvezza dall’inverno demografico nostrano. “Il voto è la nostra rivolta” è lo slogan scelto dalla Cgil per iniziare la campagna referendaria: quanto è vero. Mai come ora la possibilità è da non sprecare.
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