Furio Colombo

Furio Colombo, dai Kennedy a “Unità” e “Fatto”: ha vissuto tante vite straordinarie

1931-2025 - Protagonista. Estraeva storie sui Beatles e sui presidenti americani. E fu il solo a salvarsi da un disastro aereo: caso unico

15 Gennaio 2025

Furio rispondeva sempre e comunque a tutti i lettori (anche alle cartoline) perché, diceva, sono brave persone che ci comprano e meritano gratitudine. Io non riuscivo sempre a farlo (pur ricevendo molta meno posta di lui) e memore della sua lezione mi sentivo pigro e irrispettoso.

Agli albori dell’Unità, lo raggiungevo al bar dell’Hotel Plaza, a due passi da Montecitorio (un tocco di Fifth Avenue e due di generone romano) e lì sui divani morbidi immaginavamo un giornale della sinistra: duro, puro e con una spruzzata di seltz.

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Un giorno ricevette non so quale collega americano con cui si mise a parlare in uno slang incomprensibile per chi si era fermato al secondo corso dello Shenker. Se ne accorse, non fece una piega e per togliermi dall’imbarazzo cominciò a parlare in italiano lasciando l’altro di sasso. Lui era naturalmente gentile e cercava, nei limiti del possibile, di non far pesare la distanza tra Furio Colombo e il resto del mondo. Almeno con le persone a cui voleva bene. Di darsi delle arie ne avrebbe avuto tutto il diritto alla luce di una vita straordinaria. Quando facemmo il nostro ingresso nella redazione di via Due Macelli, lui direttore e io condirettore, trovammo solo macerie. Telefoni scollegati, polvere, cartacce, libri squadernati sul pavimento. Sul momento avemmo la sensazione di una impresa impossibile. Cominciamo a convocare i redattori spediti in cassa integrazione. Molti si dichiaravano delusi, oppure avevano trovato altre occupazioni: c’era perfino chi sosteneva di aver mutato idee politiche.

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Iniziammo a fare il giornale affidandoci a dei volontari (nel senso di giornalisti coraggiosi). E, naturalmente, alla genialità del direttore. Imperdibili erano le riunioni di mezzogiorno quando Furio raccontava, a puntate, la storia della sua vita: un autentico show. Aveva conosciuto tutti. Quattro o cinque presidenti degli Stati Uniti, grandi scrittori, stelle dello spettacolo. Estraeva dal cilindro storie straordinarie del tipo: quando scrivevo i testi per Joan Baez, oppure, quella volta che accompagnai i Beatles in India.

Noi che i Beatles li avevamo visti sulle copertine dei dischi, ascoltavamo sbalorditi. Qualcuno si mostrava incredulo: figuriamoci! Era tutto vero.

Furio ha vissuto nelle sue molte vite delle esperienze uniche, straordinarie. Le supera tutte quella dell’aereo precipitato. Lui si trovava a bordo e fu l’unico a salvarsi. Un caso quasi unico nella storia dell’aviazione civile.

Ne era stato protagonista perché ha avuto un’esistenza da protagonista. Ne venne fuori un giornale sorprendente, che riscosse un grande successo di pubblico soprattutto perché il direttore sapeva raccontare, con una scrittura magistrale, ciò che aveva visto con i suoi occhi: sapide paginate nelle quali narrava le stesse cose con cui nelle riunioni ci deliziava. Arrivammo a sfiorare le centomila copie, una specie di miracolo per un quotidiano già dato per morto. Alle feste dell’Unità, incantava il pubblico con maestria affabulatrice.

Fu mandato via da una politica insofferente: il giornale rifondato da una cordata di imprenditori progressisti riceveva attraverso i Ds i contributi pubblici. La nomenclatura ce lo faceva pesare e storceva il naso per la troppa libertà che c’eravamo presi rispetto alla sinistra bigotta. Soprattutto timorosa per gli attacchi frontali che da quelle pagine disturbavano il sommo manovratore: ovvero Silvio Berlusconi.

La parola inciucio non aveva per noi segreti. Un giorno chiedemmo di essere ricevuti dai vertici del partito. Furio disse chiaro e tondo che eravamo pronti a rinunciare a quei soldi, ma che ci lasciassero in pace. Per un po’ funzionò. Capitava che io e lui non fossimo d’accordo. I suoi successi di grande inviato, saggista, manager (fu al vertice della Fiat Usa su indicazione dell’Avvocato Gianni Agnelli che quando sbarcava a New York si abbeverava dei suoi racconti) spesso lo facevano volare troppo in alto sulle miserie della cronaca, quelle che fanno vendere più copie.

Il giorno della tragica morte del supercampione Marco Pantani non capiva perché noi altri in sala macchine volessimo dedicare un paio di pagine almeno alla vicenda. Seguirono telefonate di fuoco. “Non mi farò portare via il giornale da un ciclista”, fu il suo epitaffio, anche se poi si fece convincere a malincuore.

Quando cominciò l’avventura del Fatto, fu subito al nostro fianco. Opinioni spesso divergenti sulla guerra in Ucraina e sulla responsabilità della presidenza Biden (che Furio da democratico doc non discuteva) separarono le nostre strade professionali. Non certo quelle umane. Fu uno strappo doloroso che cercavamo di lenire con lunghe telefonate dove si rideva e s’imparavano (io) cose.

Uomo dal multiforme ingegno, Furio sapeva di architettura, musica, cinema e di ogni arte che nutrisse la sua insaziabile voracità intellettuale. È stato l’ultimo kennediano. A sentirlo parlare di America quasi si respirava quel vento di utopia e libertà che aveva gonfiato le vele della Nuova Frontiera.

Robert Kennedy che placa la rivolta del ghetto nero di Los Angeles salendo sul tettuccio di un’auto per meglio farsi ascoltare dalla folla in tumulto, è uno dei suoi racconti più vividi. Conservava una istantanea dove ad aiutare il senatore a conquistare quel palco improvvisato c’era un giovane Furio Colombo.

Se ne è andato nel momento in cui, nel suo Paese di adozione, stava per celebrarsi lo strapotere della volgarità e della prepotenza. Era davvero troppo per lui.

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