Il secondo ok al carcere per l’iraniano scadeva il 27: via Arenula corre, è all’oscuro del fermo di Cecilia
Il 20 dicembre, all’indomani dell’arresto di Cecilia Sala a Teheran, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha sottoscritto la richiesta di mantenere in carcere l’ingegnere iraniano Mohammad Abedini Najafabadi, fermato il giorno 16 a Malpensa dalla polizia su richiesta degli Stati Uniti. Nei casi ordinari l’atto del guardasigilli è puramente formale, ci pensano gli uffici […]
Il 20 dicembre, all’indomani dell’arresto di Cecilia Sala a Teheran, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha sottoscritto la richiesta di mantenere in carcere l’ingegnere iraniano Mohammad Abedini Najafabadi, fermato il giorno 16 a Malpensa dalla polizia su richiesta degli Stati Uniti. Nei casi ordinari l’atto del guardasigilli è puramente formale, ci pensano gli uffici e il ministro firma. Per la carcerazione a fini estradizionali il codice lo richiede entro dieci giorni dall’ordinanza di custodia cautelare, che qui ha la data del 17; in genere si fa subito, ma insomma Nordio aveva tempo fino al 27. Era anche l’ultimo giorno davvero lavorativo prima di Natale, venerdì 20. È chiaro però che tanta solerzia, dopo i trionfali comunicati della polizia sulla cattura dell’iraniano, non è stata affatto utile nei rapporti complicati con Teheran. Infatti il 22 dicembre il governo della Repubblica islamica ha fatto sapere di aver convocato un alto rappresentante diplomatico italiano per la prima protesta ufficiale per l’arresto di Abedini.
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Ora però il problema è che Nordio, quando ha firmato la richiesta del 20, non sapeva nulla di quanto era accaduto alla giornalista della società di podcast Chora Media. Ministero degli Esteri e Servizi segreti fin fin dal pomeriggio del 19 dicembre erano stati informati che la giornalista era sparita; la mattina del 20 la telefonata di Cecilia dal carcere di Evin ha confermato l’arresto. Ma per almeno 48 ore, a quanto si apprende, la notizia è rimasta confinata tra la Farnesina e Palazzo Chigi. Non hanno coinvolto subito il ministero della Giustizia, che pure aveva in mano l’iraniano arrestato. Ma perché, quando era più che prevedibile che l’arresto di Sala fosse, come oggi è chiaro a tutti, una ritorsione per quello di Abedini? Formiche.net, sito ben introdotto negli ambienti della diplomazia e dell’intelligence, aveva scritto fin dal 17 dicembre che c’era il rischio che gli iraniani prendessero ostaggi italiani. Non era facile, spiegano, proteggere Sala e gli altri italiani in Iran. Ma quando hanno saputo che la giornalista era stata presa, o almeno era sparita a Teheran, perché non coinvolgere il ministero della Giustizia? Nessuna risposta dalla Farnesina e da Palazzo Chigi.
Con ogni probabilità l’amministrazione penitenziaria (Dap), che dipende sempre dal guardasigilli, non era informata della delicata partita aperta con l’Iran neppure il 23 dicembre, quando ha disposto il trasferimento di Abedini dal carcere di Busto Arsizio a quello di Rossano Calabro. Un atto ostile, dal punto di vista iraniano, anche perché il console Ali Fahim Danesh e l’avvocato Alfredo De Francesco erano già stati autorizzati a fare visita ad Abedini a Busto Arsizio. Tanto più che Rossano, in fondo alla Penisola, ha una sezione di massima sicurezza destinata ad estremisti e terroristi islamici, per lo più sunniti e nemici dell’Iran. Come è finita lo sappiamo già: il 26 dicembre, su richiesta iraniana, Abedini è stato portato nel carcere milanese di Opera dove il console l’ha potuto incontrare una prima volta l’indomani, il 27. Solo così gli iraniani hanno autorizzato l’ambasciatrice italiana Paola Amadei a vedere Sala, sempre quel giorno, nel carcere di Evin.
Sono dettagli, a questo punto. Ma confermano che le autorità italiane hanno agito con grande sollecitudine per arrestare l’iraniano reclamato dagli Stati Uniti e tenerlo in cella. Poi però hanno tardato a mettere a fuoco che le vicende di Sala e Abedini erano strettamente legate fra loro. O almeno hanno agito, per diversi giorni, come se non l’avessero compreso.
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