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Francesco Guccini, l’intervista inedita: “Lambrusco, fumetti, libri e un tal Andrea Camilleri”

Pubblichiamo un’intervista del 1998 sul suo paese natio (Pàvana), la figlia, la memoria e del computer: "Ho sempre desiderato scrivere, fin da ragazzino. Non pensavo alle canzoni"
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Cinquant’anni fa, nel 1974, usciva “Stanze di vita quotidiana” di Francesco Guccini. Album storico non solo per la carriera del cantautore di Pàvana, ma per tutta la musica popolare italiana dei gloriosi anni Settanta. Tutti i brani sono intitolati “Canzoni”: la più famosa, l’hit del disco, sarà certamente la “Canzone delle osterie di fuori porta”. L’album, intimista quant’altri mai per poetica ed espressione nella produzione gucciniana, balzò ben presto al centro di una famosa polemica. Nel gennaio del ’75 usciva su «Gong» l’attesa recensione di un big della critica come Riccardo Bertoncelli: ed era una stroncatura senza appello. Guccini, come si sa, avrebbe risposto di lì a poco sfornando una delle sue canzoni-simbolo: “L’Avvelenata”. Quest’album rappresenta un punto cruciale nel percorso artistico di Guccini, caratterizzato da un’intensa introspezione e un profondo legame con la memoria. La ricorrenza del cinquantesimo anniversario di “Stanze di vita quotidiana” ci offre l’opportunità di riscoprire un’intervista praticamente inedita del 1998 apparsa solo su una rivista di teologia, cultura e politica, «Il Sicomoro». La conversazione con Francesco Aliberti, intitolata “La locomotiva della memoria”, è una preziosa fonte di riflessioni intime e personali di Guccini.

Francesco Guccini, per i pochi che non lo sanno, abita a Bologna, appena fuori Porta San Vitale, dietro l’ospedale Sant’Orsola. È un quartiere tranquillo e appartato; al civico 43 di via Paolo Fabbri, appena dopo il disadorno negozio di un barbiere vecchia maniera. Nessun nome sul campanello. Suono. Dopo poco apre la porta Guccini. Un omone stropicciato, con la barba un po’ incolta, in jeans e maglione, ma dai modi gentili, quasi di altri tempi. Con educata solerzia mi fa accomodare. Saliamo le scale al piano superiore, passando dalla sala dove c’è un pianoforte a coda nero. Lo studio è zeppo di libri. Sulla scrivania volumi impilati, carte, posacenere e sigarette. Sulla sinistra un computer. Sulla parete dietro, dove siede Guccini, la foto d’epoca di famiglia, quella che appare sulla copertina del disco “Radici”.
Per l’emozione ho preparato tutto, una scaletta di domande precise sul tema, ma è tutto inutile: parlare dell’argomento “memoria” con Guccini vuol dire abbandonarsi al flusso dei ricordi, che si susseguono a volte indistinti seguendo l’ineluttabilità e la circolarità del tempo, che trascorre e si perde e che, solo nel racconto, diventa tempo ritrovato.

Guccini, parliamo di memoria. Ma prima ti chiedo: come vive un “cantastorie” nell’epoca di Internet?

Non mi sento un cantastorie, anche se è romantico dire cantastorie. Il cantastorie è qualcosa di diverso da me. Il cantastorie adoperava tutti i mezzi che sarebbero diventati comuni adesso. Aveva sempre un occhio attento al mercato, non offendeva mai il potere… una cosa che non mi riguarda. Per quanto riguarda la memoria c’è una cosa importante per me: il pensiero di essere cresciuto in un luogo e in un ambiente particolare, che mi ha dato un imprinting fortissimo, tant’è vero che poi tante cose vengono da lì. Quindi la memoria, la memoria e le tradizioni, che ho scoperto relativamente tardi, negli anni Settanta, quando ho cominciato a fare ricerche sui canti popolari, per poi esaminare questa Pàvana, questo mio paese, la sua vita, tutti i suoi aspetti, la gente. Si tratta di una specie di ritorno all’infanzia per cercare di capire quelle cose che da piccolo si erano viste ma non si erano capite del tutto. E mi sono pentito tante volte di non aver fatto indagini più accurate, quando la gente c’era ancora, quando era ancora viva. Quindi non è che io viva soprattutto in una dimensione della memoria, ma anche in una dimensione della memoria, del ricordo, di quest’“ambiente” che non esiste più e che in qualche modo ho cercato di fermare, di raccontare, di scrivere.

Coltivare i ricordi, ricercare con ostinazione un passato che ora non è più: non si corre il rischio di dimenticare il presente, di diventare in qualche modo refrattari alle innovazioni?

Non credo. Guarda qui [indica il computer sulla scrivania, NdA]: questo testimonia che vivo nel presente. Il fatto è che, in tempi filosofici, il futuro non lo conosciamo, il presente sfugge di secondo in secondo, dunque quello che resta da studiare, da capire, da seguire è sempre il passato. È ovvio che si vive nel presente e anche nel futuro, perché facciamo progetti, diciamo “fra due mesi faremo, fra tre mesi faremo, fra tre anni faremo”… Mi colpisce che a Bologna faranno tante cose nel Duemila e istintivamente mi vien da pensare: il Duemila è così lontano. Invece no, è così vicino, ma quello che riusciamo a esaminare meglio, a capire meglio – per comprendere quello che siamo oggi – è sicuramente il passato.

Quali sono le difficoltà maggiori della trasmissione della memoria?

Dipende sempre dal “come”… La stessa domanda potresti farla a Márquez. Cosa dovrebbe interessarci di Macondo? Ma Macondo raccontato in un certo modo interessa. Tu trasmetti certe cose, le racconti a un certo modo, e questo può più o meno affascinare, può o meno colpire, lasciandoti il desiderio di entrarci, di scoprire. Una curiosità: quanta gente, dopo aver letto le Croniche, è venuta a Pàvana per vedere come era fatta veramente. E guarda che non è più quella, è cambiata, ma ci sono ancora delle cose…

Sono venuti anche i giovani? O se ne fregano della Pàvana?

Io penso che quando uno è adolescente, giovane, vive nel presente o tutt’al più in un futuro speranzoso, senza ricordare niente. Io vedo moltissimi giovani che vivono molto nel presente e poi nel futuro e poi a un certo punto in alcuni scatta qualche cosa per cui si comincia ad andare a vedere quello che è stato. Dipende molto anche dal luogo in cui si cresce, perché la città tende più a nominizzare, se mi si passa questo verbo, mentre in un paese, in una città piccola, le cose hanno degli aspetti differenti, sono più vicino a te, si è circondati di un’altra atmosfera; quindi è più facile desiderare di recuperare, chiedere chi è quello, chi era l’altro, che esperienze si sono fatte…

Quindi nella provincia si ricorda meglio, come dici in “Vacca di un cane”, nella scena del tram…

Lo vedo con mia figlia. Mi prende in giro perché sono troppo legato a queste cose. Penso però, anzi, sono sicuro, che anche in lei, un giorno, scatterà un meccanismo di questo tipo. Avrà anche lei una memoria.

Pensi che i giovani di oggi sono uguali a quelli di ieri: impareranno a ricordare col tempo?

No, un po’ meno, anche perché chi è vissuto in certi anni ha una memoria più forte. Ti sei mai accorto che quando la gente di una certa età comincia a parlare del tempo di guerra, un periodo drammatico, tutti hanno qualcosa da dire, hanno un episodio da raccontare, si scaldano? Questo perché la guerra, anche se è una cosa tremenda, lascia delle tracce indelebili. Così anche il dopoguerra, pieno di tensioni, di scontri, di voglia di fare, di gente povera povera che però viveva una giornata intensa. Mentre adesso si vive diversamente, ma è difficilissimo trasmettere queste cose. Io avrei voglia di dire a mia figlia “Quando avevo la tua età…”.

Qualche anno fa mi arrabbiai in famiglia, perché portai a casa, vincendo a carte, quei panieri, quei cesti con dentro il salame, la bottiglia. Andavo molto fiero di questo, invece intorno c’era l’indifferenza generale. Pensavo che se lo avessero portato a casa quando ero piccolo io sarebbe stata per me una festa. Adesso certo che non gliene frega niente, hanno tutto quello che vogliono, senza stare a faticare, a cercare. Mia figlia parte. Dice: “Vado due settimane in Inghilterra”. Ma chi è lo sponsor?, mi vien da dire… Insomma, calma.

A proposito, in un tuo romanzo c’è una dedica proprio a tua figlia Teresa, che dice: “A Teresa sperando che impari”. Che impari che cosa?

Che impari a ricordare, che impari a ricordare, che impari questo mondo, che impari questa Pàvana che lei adesso odia perché non è una vacanza in Costa Azzurra.

Non ti metti mai in discussione, come genitore, pensando di non essere riuscito a trasmettere queste cose?

Qui la faccenda si complica, perché i genitori sono sempre due. E se uno dei due – che adesso non c’è più, fra le altre cose – ha sempre combattuto questa Pàvana, è chiaro che il figlio, come dire, si trovi di qua o di là… ma io sono sicuro che qualche cosa prima o poi le arriverà. Ho fallito? Al massimo posso aver raggiunto la saturazione, la noia perché poi insisti e… [mentre parla prende da uno scaffale un volume e lo mostra, Nda]: è un vocabolario di dialetto pavanese. Sono più di dieci anni che ci lavoro, anche se non sempre, intendiamoci. Sono milleseicento vocaboli. Metteremo anche foto e cartoline, se no la lettura risulta difficile. È quasi completato. Devo fare un’introduzione che non mi decido mai a fare. Il mio dubbio era fra un’introduzione dotta, per far vedere che sono bravo, e qualcosa di più semplice per i miei compaesani. Avrei quasi scelto la seconda strada, perché chi se ne frega se sono bravo, se conosco le cose. Al mio compaesano bisogna che spieghi come sono le cose, perché le cose andavano così. Quindi invece che dire che anche nel pavanese c’è il fenomeno emiliano del vocalismo tonico, che a un pavanese medio non dice niente, dire: come in emiliano si appoggia sulle vocali su cui cade l’accento e molte consonanti prima di quella vocale tendono a scomparire. Ho notato poi che i testi scientifici inglesi sono molto più comprensibili rispetto i nostri. Qui è un vizio, un vizio nostro italiano. Ho scritto l’introduzione di un altro libro del genere, ma poi mi son detto: “Scritto così non può interessare a nessuno”, perché pieno di citazioni, di rimandi, di cose…

Ma a chi serve questo vocabolario? Pensi al pavanese come lingua per la poesia e la narrativa o si tratta di un’operazione di recupero, conservativa?

No, ormai… dopo l’Unità d’Italia sono nati molti vocabolari. Sono nati per insegnare alle classi colte l’italiano, che non lo conoscevano. Tutte le classi colte, anche i padroni dei vapori di Reggio Emilia, di Modena, non sapevano l’italiano. Allora gli serviva proprio per tradurre il dialetto in italiano. Adesso il vocabolario ha il più delle volte una funzione solo conservativa. Il pavanese è un dialetto ormai non più parlato. Lo parleranno quindici anziani in tutto il paese.

Mi viene in mente Pasolini che si era innamorato del dialetto di Casarsa, ma lui pensava a una lingua per la poesia, una lingua originaria, incontaminata…

No, io che parlo due dialetti, il modenese e il pavanese, non li ho mai praticati abbastanza per poter scrivere qualcosa. Ho provato a scrivere qualche poesia in dialetto ma sono molto compitine. C’è la ricerca forzata della parola [prende un altro volume dallo scaffale, Nda] il vocabolario reggiano, ad esempio, si chiama… l’ha scritto don Battista Ferrari… deve essere un don… vocabolario reggiano… [comincia a sfogliare e a leggere qualche vocabolo, Nda]…

Nella “poetica dell’allora”, come dici in una canzone, rientra anche il linguaggio, il passato della nostra lingua, l’espressione dialettale…

Quella è una canzone particolare. Ogni autore racconta di sé e del proprio bagaglio, racconta quello che ha fatto e quello che ha visto. Io penso che anche in un racconto di fantascienza uno racconti di sé. Poi citavo Borges – nel mio libro c’è – che dice che siamo tutti autobiografici. Esaminando il proprio bagaglio si raccontano necessariamente le proprie esperienze e questo può produrre anche dei risultati curiosi, per esempio: sai che ultimamente ho scritto questo giallo con Machiavelli, in questo paese di montagna. Lui è di un paese vicino al mio, che è Vergato, ma è tredici chilometri più a valle, e quindi abbiamo dovuto metterci d’accordo su alcune cose, perché lui ad esempio descriveva situazioni diverse. Ognuno fruga dentro la propria memoria, i propri ricordi e le cose diventano diverse. Abbiamo dovuto incontrarci per dire: allora, questo sì questo no, perché la memoria [squilla il telefono, Nda], perché passando attraverso la memoria… ognuno…

A un certo punto cominci a scrivere romanzi, che di memorie e tradizioni sono pieni. Come è avvenuto? La musica non ti bastava più?

No, ho sempre desiderato scrivere. Fin da quando ero ragazzino ho sempre desiderato scrivere. Non pensavo assolutamente alle canzoni. Però, come dicevo prima, non dico che mi è stato possibile, ma mi sono deciso a scrivere quando è arrivato il computer, perché è comodissimo: scrivi, cancelli. In questo caso è grazie alla memoria del computer che scrivo. Perché vedi, quando scrivo sono molto veloce. Posso scrivere di molti argomenti con una certa facilità. Il computer ti permette di scrivere, cancellare, tornare a fare. Quindi quando anni fa ho preso il primo computer, un amico mi aveva chiesto un brano su Bologna. Io mi sono messo lì e non ne avevo voglia e allora mi son detto: “Perché non scrivo qualcosa su Pàvana?” E così a poco a poco è nato il primo romanzo. Adesso dovrei scrivere il terzo ma sono fermo. Ho scritto qualche capitolo ma devo ancora trovare la chiave giusta.

Di cosa parlerà?

Di Bologna sicuramente. Scriverò con Loriano Macchiavelli. È il secondo giallo. Sarà ambientato sempre nell’Appennino, ma stavolta nel 1960. E quindi è cambiato tutto. È bello questo salto dagli inizi della guerra del 1939/40. La guerra non è ancora iniziata nel primo romanzo, e con questo invece siamo nel ’60, quindici anni dopo la fine della guerra. L’altro giorno ero qua con un mio amico, ci siamo conosciuti nel ’48. La guerra era finita da tre anni, ma era una cosa dimenticata, accaduta. Poi può ritornare fuori ancora. Quindi c’è questa umanità che è a cavallo fra il vecchio modo di essere e il nuovo modo di essere. In questo paese c’è il bar, la cartolibreria, che è una novità, perché prima non c’era assolutamente; ci sono i jukebox, i flipper…

Perché la struttura del giallo? Fra i primi due romanzi e il terzo c’è un forte stacco a livello di struttura narrativa…

Ma no. La scelta è del tutto casuale, nel senso che io non sono un giallista. Mi era venuta un’idea. Hai letto Macaroni? In “Macaroni” c’è un fatto accaduto realmente nel mio paese: l’uccisione di un prete. Ecco, ti faccio una parentesi: la narrazione orale è un veicolo forte di memoria, che si ripete. A volte c’è il piacere di stare a raccontare sempre la stessa storia. Insomma sulla storia di questo prete morto ho pensato di costruire un giallo, ma non sono un giallista. Mi era venuta l’idea che il maresciallo avrebbe potuto scoprire l’assassino giocando a carte. E poi l’altra idea era quella della miniera. Allora ho detto a Macchiavelli: ti do queste idee, se vuoi farci un giallo fa’ quello che ti pare. C’era un editor della Mondadori che disse: perché non provate a farlo assieme? Nessuno dei due aveva mai lavorato a quattro mani. Dico: beh, possiamo provarci. Abbiamo provato. Ognuno scriveva le sue cose, poi veniva corretto dall’altro. E poi sai, devi guardare e riguardare, perché ci sono degli sbilanciamenti ogni tanto. Può capitare che il maresciallo abbia il portasigarette d’argento e nel capitolo dopo diventi d’oro. E poi bisogna stare attenti allo stile… per citare Borges ancora: diceva che quando aveva scritto quei gialli con Casares non li aveva scritti né lui né Casares, ma una terza persona, la sintesi dei due. Ma la trama, il plot narrativo, è sempre di Macchiavelli, come le idee generali sono sempre mie. Come in questo caso: ambientato negli anni Sessanta, c’è un tesoro all’inizio che poi non esiste… sono storie pavanesi, un tesoro che è poi una leggenda di tipo longobarda.

Quindi non c’è stata nessuna cesura fra l’attività di cantante e quella di scrittore: a un certo punto hai cominciato a scrivere perché, miracolo della tecnica, è arrivato il computer…

Il computer mi ha permesso di farlo, sì! Il periodo in cui ho scritto di più sono stati gli anni dell’università. Ho scritto come un pazzo. Risparmiando carta perché non avevo soldi. Mi facevo portare a casa da mio babbo che lavorava alle Poste pacchi di carta scritti da una parte che loro buttavano via e che io adoperavo.

Scrivevi poesie, racconti…

Poesie no. Poesie ne ho scritte un paio, un paio di poemetti, perché allora ero eliotiano. Racconti soprattutto, di vario tipo.

Li hai conservati?

Qualcosa devo avere ancora lassù in montagna. E poi ho smesso completamente, però mantenevo questa idea, un “Croniche epafàniche” esisteva da molto prima. C’è un capitolo, ad esempio, che ho recuperato, scritto a mano molti anni prima… nel ’73 forse. La versione finale è dell’89. È uscito nel ’90.

Chi sono i tuoi autori? Quando ti metti lì e scrivi quali sono i tuoi referenti ideali?

Sicuramente, quando ho scritto “Croniche epafàniche”, Meneghello, questo vicentino. Meneghello che ha quello stile, tutto sommato, simile. Poi guardati intorno [libri ovunque, Nda]. Ho scoperto recentemente questo Camilleri, non so se lo conosci [ha il libro aperto sul tavolo. Comincia a leggere, Nda]: “Gli parse a un tratto che il suono del violino diventasse una voce, una voce di fimmina, che domandava di essere ascoltata e capita. Lentamente ma sicuramente le note si stracangiavano in sillabe…” Usa molto il siciliano, ed è un giallista.

Mi è venuto in mente leggendo il tuo primo libro un po’ Gadda, perché tu come lui usi metterti in nota, cioè commentare ciò che hai scritto in una specie di glossario finale. E poi in effetti il tuo stile è espressionistico.

Sì, sì, è vero… espressionistico, come questo Meneghello… ma poi vedi la biblioteca…

Quali sono le altre voci della memoria di Guccini? La vita che si tramuta in citazione, come diceva Borges…

Borges è un grande lettore, e le citazioni derivano da lì. Essendo un grande lettore ha questo piacere di raccontare quello che ha letto. In effetti a volte succede. È il “come dice…” Ma non è tanto il far vedere di aver letto, quanto piuttosto che viene istintivo, naturale. E qui un’altra parentesi: a volte mi dicono: “Che memoria che ha lei”, banalizzando il concetto. Non si tratta di questo. Sono cose istintive, che poi misteriosamente escono. Citare cose che erano sepolte di qua e di là, e che non immaginavi neanche di aver detto, di aver fatto. Ma anche il verso di una canzone. È tutto quello che mastichi, che mandi giù, che poi a un certo momento salta fuori.

Ma la memoria è anche un fatto di cultura, in senso largo… in una canzone dici: “Signorina cultura, si spogli e dia qui le mutande”. È un verso che…

È un verso che vuole dire lo scempio che in certe occasioni, soprattutto televisive e cinematografiche, si fa della cultura, di quello che spacciano per cultura. Al cinema ogni tanto ci vado, ma anche la televisione io la prendo per quello che è. La prendo per come va presa. La guardo anche abbastanza spesso la sera. Guardo un po’ tutto. Oddio, non guardo le puttane vergognose, ma anche un filmetto dozzinale me lo guardo un po’. Ma, vedi, a volte capita anche con i libri, ti fermi e non riesci ad andare a pagina 10, e allora ti chiedi: “Cosa l’ho preso a fare?”. E lo riponi, mentre è difficile alzarsi al cinema, ti rovini la serata. Deve essere proprio una serata catastrofica.

Come ti sembra Bologna sotto questo aspetto? Ti spinge a uscire?

No, onestamente, no. A parte il fatto che io sono molto abitudinario. C’è questa trattoria qui sotto, dove si va a fare qualche chiacchiera da bar e due partite a carte. Non ci sono mai discussioni su argomenti letterari o filosofici. Proprio oggi leggevo un’intervista sul «Carlino» fatta a Giorgio Celli, il quale diceva che passava le sue giornate all’Osteria dei Poeti, che allora era una bettola infame. È vero, ci vedevamo tutte le sere con Giorgio Celli e altri amici a discutere di poesia, a parlare… ma non so se sia un fenomeno giovanile, capisci? Poi col passare del tempo ognuno si rinchiude nel proprio particulare e lavora per conto suo. Non so se esistano ancora queste cose. Mia figlia mi dice che c’è un gruppo di adolescenti come lei, diciotto/diciannove anni, che hanno fatto questa rivistina, che non mi ricordo come si chiama. Se vuoi glielo chiedo [si alza, esce e lo chiede alla figlia. Torna, Nda] Si chiama “Il foglio del Richter”. Richter, come la scala dei terremoti. Sono dei giovani che hanno voglia di scrivere di fare… certo che col computer oggi è tutto più facile.

A proposito di iniziative giovanili, visto che sei stato anche tu un prof al “Dickinson college” di Bologna Com’è messa la scuola?

Sono stato prof qualche volta, ma ormai sono quindici anni che non insegno più. Ho insegnato nella Dickinson qui a Bologna. I primi anni sono stati discreti, intorno alla fine degli anni Sessanta, poi mi sono stancato, non mi stimolava più. Ma la loro situazione è molto diversa, la loro università è molto diversa: da un lato è più precisa, più funzionale, più comoda, dall’altro è più leggera della nostra, almeno sotto certi aspetti. Parlo ovviamente delle facoltà umanistiche, non di quelle scientifiche che non conosco. Cosa penso oggi della scuola? Per me la riforma Berlinguer è diventata pericolosa. Sta facendo dei danni irreparabili. Viene quasi da rimpiangere la vecchia scuola media che facevo io, dove non dico che ci bastonassero, ma ci andavano vicino. Che poi non ho ben capito cosa voglia fare quest’uomo, è molto confuso. Avrà anche un suo piano segreto, ma a noi non è dato sapere… favorire l’insegnamento della storia contemporanea, per esempio, tralasciando periodi storici precedenti… ma stiamo scherzando!

Che scuola hai fatto?

Io ho fatto una scuola un po’… le magistrali, che sarebbero state anche abbastanza complete per certi studi che si affrontavano, come psicologia, la musica… ma la scuola dipende sempre dal professore. Quando sono arrivato all’università mi sono ritrovato con cose come “langue e parole” o “la scuola linguistica di Praga”. Ci veniva da dire: “Questo qua è matto”. C’è un impatto molto duro tra scuola media superiore e università. Anche per me è stato molto duro, pur venendo dalle magistrali che avevo fatto con molta scioltezza. Se avessi fatto il liceo classico sarebbe stato molto meglio. Rimane la scuola migliore, dove ti fai le ossa.

Cominciamo a parlare della Bassa reggiana, di Novellara, del paese dei Nomadi.

Venivo dalle vostre parti, a Campagnola, per incontrare i Nomadi, a fine anni Sessanta. Poi sono venuto a Novellara a suonare due o tre volte. C’era una sala da ballo, il “Ritz”. Ma soprattutto quella parte dell’Emilia è per me legata a Carpi. Mia madre era di Carpi. Ricordo una Carpi del Dopoguerra, una Carpi che mi ha sbalordito. Durante le vacanze da Pàvana, dopo una settimana mi mandavano dai nonni di Carpi, e non è che fossi così felice. Era un tipo di vita diversa. Su in montagna c’era una casa sola, mentre a Carpi si viveva in un condominio. Poi mi meravigliava che dovessero andare a comprare tutti i giorni le cose da mangiare, anche se allora Carpi era piccola, oggi invece è una cittadina. Poi mi ricordo di uno zio che mi regalava giornali e giornalini che mi piacevano molto. Usciva «Epoca», subito dopo la guerra, pieno di fotografie, tipo «Life». Mi regalava anche dei fumetti. E poi di Carpi mi piaceva, – al contrario di Modena, perché i miei non avevano molto soldi – che c’era sempre la bottiglia di Lambrusco, il salame. Il tuo accento è molto simile a quello carpigiano con le “E” aperte…

Di quegli anni hai raccontato molto in “Vacca di un cane”… mi ha divertito l’episodio delle lezioni di catechismo…

Vedi, la canzone “Piccola città” è la sintesi di “Vacca di un cane”. Il ricordo dei preti e del catechismo sono divertenti. Soprattutto perché c’erano le elezioni del ’48 e le suore ci portavano dopo il catechismo a pregare in chiesa perché vincessero i buoni e perdessero i cattivi. Poi da bimbo le domande capziose, la storia che non bisognava mangiare assolutamente prima della Comunione e allora se una goccia d’acqua cadeva in bocca che cosa succedeva? Insomma piove! Oppure la storia degli angeli: quanti ce ne stanno sulla punta di uno spillo? E tutte queste cose qua, era una storia abbastanza triste.

E dov’eri all’epoca?

A Modena. Purtroppo, nel ’45 mi sono trasferito a Modena. C’era un vecchissimo parroco e avevo lasciato Pàvana. Pensa alla felicità quando d’estate tornavo su in montagna. E poi c’erano le vacanze lunghissime, duravano quattro mesi… Allora c’era il cosiddetto esame di ammissione che era tremendo, ferreo. Finalmente, alla terza, dopo tanta fatica, do gli esami, ero stato anche promosso e, dopo aver preparato i bagagli, scendo giù a giocare, carambolo sul cancello, casco e mi rompo un braccio. In breve: invece di essere a Pàvana ero qui all’ospedale a Bologna, frattura multipla, ma non me l’hanno detto, per cui mi hanno portato in sala operatoria, io pensavo che mi ingessassero, e invece mi hanno tirato via una scheggia d’osso dalla gamba per innestarla nel braccio… è stata una cosa lunga e complicata e poi con la paura del rigetto. E son rimasto un mese con il gambaletto e tre mesi ingessato così. Una sfiga mai vista. E beh!

Avevo conosciuto Guccini in un’osteria, dopo una conferenza tenuta agli studenti del liceo. Era il 1998. Durante la cena se ne era uscito con una stoccata contro il cosmopolitismo in difesa delle radici, della memoria e delle origini di ognuno di noi: “…Non mi convince questa storia del cosmopolitismo e dell’essere cittadini del mondo. La nostra patria rimane sempre quella ed è dove sono seppelliti i nostri morti. Se dovessi dire qual è il mio paese direi che è quello dove riposano i miei morti”.
Per fare bella figura, io citai Kundera, che in quel periodo imperversava: “Per far sì che l’io non rimpicciolisca e mantenga invariato il proprio volume bisogna annaffiare i ricordi come dei fiori in vaso, e tale operazione richiede un guardare l’integrità del proprio io. Per contatto regolare con i testimoni del passato — ossia con gli amici, che sono il nostro specchio, la nostra memoria”.
Non so se la citazione fece colpo o se fu merito del nostro direttore, ma resta il fatto che alla fine Guccini mi concesse l’intervista di cui sopra.

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