Dal “modello Milano” al “Salva Milano” il passo è breve, ma gli errori molti. E ricorrenti: a fronte di segnali macroscopici che indicano la necessità di cambiamento, ancora una volta ci si tappa gli occhi per assecondare gli interessi di pochi. Facendone un metodo: si cristallizzano gli errori trasformandoli per legge in soluzioni. Replicabili. La storia è quella favoleggiante della capitale morale (si fa per dire) diventata metropoli europea grazie alla trasformazione di interi quartieri, dove nell’ultimo decennio sono stati abbattuti palazzi per fare spazio a grattacieli mirabolanti. Ignorando, però, tanto le esigenze del tessuto sociale quanto le leggi in vigore: sia per le procedure accelerate, che hanno consentito di applicare a nuove costruzioni gli stessi processi autorizzativi di ben più banali ristrutturazioni edilizie (la cosiddetta Scia), sia per la violazione delle normative esistenti (il dm 1444 del 1968, art. 8 comma 2, e legge 10 del 1977, art. 41 quinquies). Che stabiliscono tre cose: ogni nuova edificazione deve inserirsi in un piano urbanistico complessivo; a fronte della cessione di suolo pubblico vanno pagati oneri adeguati (si restituisce cioè qualcosa alla cittadinanza); e, soprattutto, ogni intervento va associato alla fornitura di servizi per chi vive nell’area, così da non peggiorarne la qualità della vita.
È un concetto facilissimo, al di là dei tecnicismi: la popolazione non deve rimetterci quando palazzinari e capitali privati si gettano in nuove avventure che li faranno ricchi. A Milano, in barba a ogni regola, questo è successo abbondantemente, e mentre succedeva gran parte dei media si sdilinquiva sulla sprovincializzazione e l’attrattiva della città: il modello “Milano”, appunto. Nel frattempo, ampie fasce di popolazione venivano sostanzialmente rimosse dal capoluogo perché non in grado di sostenerne i costi fuori controllo: occorre ricordare che in Italia mancano almeno 500 mila alloggi popolari, il patrimonio abitativo pubblico è pari ad appena il 4% del numero di abitazioni – un quarto di Francia o Gran Bretagna – e soddisfa tra il 3 e il 5% delle domande delle graduatorie, in cui sono iscritte 650 mila famiglie. Non solo: la possibilità di alloggi è stata ulteriormente ridotta dal dominio incontrastato di AirBnb e soci di affitti brevi, diventati così potenti da provare a dettare la linea sulla regolamentazione persino all’Associazione nazionale dei comuni (Anci). Eppure, quando infine la magistratura e il Comune meneghino stavano iniziando a intervenire per sanare la situazione, è passata alla Camera una legge – sulla cui costituzionalità ci sono dubbi – che elimina di fatto la differenza tra ristrutturazione edilizia e ristrutturazione urbanistica, in nome della “rigenerazione” urbana. Tradotto: quello che è stato fatto a Milano si potrà fare ovunque, diventa la norma. Peccato che rigenerazione non significhi banalmente cambiare gli edifici, ma riqualificare lo spazio pubblico a fronte delle mutate esigenze – prima di tutto climatiche ed energetiche – della cittadinanza, con una visione d’insieme tra spazio e servizi, e un processo partecipato, in cui le domande di giustizia sociale e ambientale trovano ascolto per ridurre atroci disuguaglianze. Questa legge fa l’opposto: demolisce la partecipazione pubblica in scelte che impattano la collettività, celebra il capitale privato e ignora le trasformazioni, anche demografiche, in atto. Puro Ancien régime, altro che governo dalla parte del popolo. E dire che le recenti tensioni al Corvetto segnalano che ripensare le città è prioritario: ma a bruciare sono i quartieri popolari, la rivolta offre l’ennesimo pretesto per interventi securitari e può essere che la visione del fuoco risulti persino fascinosa dall’alto di quelle mostruose concentrazioni di ricchezza che sono i grattacieli della nuova Milano.
Per il Forum Disuguaglianze e Diversità