L’effetto banlieue di Fontana (non Lucio), le infiltrazioni degli “specialisti della rivolta” di area anarchica, le “seconde generazioni emergenza nazionale” (e chi se non il ministro dei Trasporti che si occupa di tutto tranne che di trasporti?). Ramy aveva 19 anni, è morto domenica al Policlinico di Milano dopo un incidente avvenuto durante un inseguimento notturno: era sul sedile posteriore di uno scooter, ha perso il casco, la moto è scivolata e lui ha urtato violentemente la testa contro il marciapiede. I suoi amici non credono alla ricostruzione degli inquirenti: Ramy non è morto per la caduta dallo scooter, ma perché investito dalla pattuglia dei carabinieri che per otto chilometri lo ha inseguito. I ragazzi sono arrabbiati e il giorno dopo mettono a ferro e fuoco il quartiere: un autobus vandalizzato, cassonetti rovesciati, dieci roghi appiccati per le strade di Corvetto, “il più grande progetto di edilizia popolare costruito negli anni Venti del Novecento quando dare una casa a tutti era un imperativo morale”, come ha ricordato Gianni Biondillo, scrittore e architetto, su Repubblica. Per i ragazzi incazzati che Salvini definisce “emergenza nazionale”, la guerriglia urbana è un’espressione di cordoglio, dicono “sono le nostre condoglianze”. Tra l’altro mica tutti sono seconde generazioni; come ha spiegato Yehia Elgaml – il papà di Ramy, che ieri si è dissociato dalle violenze esprimendo la massima fiducia nella magistratura – Ramy si sentiva più italiano che egiziano.
Era fatale però che sui giornali e sui social (c’è differenza, ormai?) si riversasse il diluvio di luoghi comuni insufflati dai politici. E allora ecco Corvetto che diventa banlieue o le emergenze nazionali: tra un po’ il Bataclan è dietro l’angolo. In questa sciatta narrazione, più suggestione che resoconto, però si ritrovano qua e là tracce di verità. Ieri, nel reportage sul nostro giornale, Davide Milosa ha incontrato Nadir, uno dei ragazzi di Corvetto, che gli ha spiegato: “Non mi rispecchio in quelli che hanno fatto casino, credo sia inutile. Però ti dico questo: svegliandomi oggi e vedendo voi giornalisti, trovo che a questo punto in questo Stato questo sia il modo giusto. Senza dirti che ne prenderò parte, il mio pensiero sta cambiando”. Adesso li riconosciamo, insomma: non ci sono Bianciardi che vedano la loro vita agra, sui media per lo più il racconto della città da bere sta dentro quattro vie, il grande mall extralusso con il duomo al centro e qualche vip che, di tanto in tanto, lancia allarmi sicurezza. Milano non è Parigi, perché nelle sue periferie abitano ragazzi i cui genitori arrivano da lontano, Milano forse non è uguale a niente, nemmeno a se stessa dieci anni fa.
Su Repubblica Biondillo ha scritto anche che “le periferie, in senso geografico, non esistono. Esistono luoghi di frizione sociale, spesso persino a un passo dal centro storico”, come in questo caso (sei fermate di gialla dal Duomo). “Depositi degli ultimi, dei poveri, degli immigrati, degli anziani, di chi non produce, di chi non è dentro la narrazione della città che non si ferma mai”. È una questione generazionale? Viviamo davvero in un paese che odia i giovani, come sostiene lo scrittore? Forse, ma di certo viviamo in una città che odia i poveri, o se li fila solo in quel residuo di borghesia civica che rimane e fa volontariato. Ultimissimi, ultimi, penultimi e quelli in bilico tra sopravvivenza e miseria restano un’attività extracurriculare, non sono la città. Milano non ha cittadini perché nemmeno gli autisti di Atm possono permettersi un affitto, Milano ha “protagonisti” o “clienti”, pensata com’è per ospitare eventi, dalla settimana della moda a quella del design, dalla Music alla Digital week. E pure la politica non frequenta più i territori (non ne ha bisogno), basta un post per speculare sulla paura.