Cesare Cremonini

Cesare Cremonini: “Con ‘Alaska Baby’ sono rinato: è come fosse l’opera prima”

Il nuovo album in uscita - “Secondo molti difetto di credibilità. Il successo coi Lunapop fu un handicap”

28 Novembre 2024

“Ho paura che la mia anima si rompa e si sfilacci: la sollecito troppo”. Cesare Cremonini è una creatura fragile e un talento puro, “con un disperato bisogno di essere ascoltato in profondità”. Sceglie un ristorante di fiducia nella sia Bologna, in pieno centro. Tortellini e un accenno di vino. Fiume in piena, confidenze e sguardo fisso nel futuro. Poi di corsa in auto verso la sua casa – “da piccolo Lennon” – sui colli bolognesi, ascoltando non senza emozione la canzone duettata con Luca Carboni. Infine nel suo studio, per sentire il nuovo disco che esce domani, “Alaska Baby”. Dodici brani che trasudano grazia e cicatrici. Cremonini ci tiene tantissimo, e fa bene perché è un album (il nono in studio) assai ispirato e coraggioso. “Il tema che tiene insieme tutto è la rinascita. Alaska Baby è un disco nato al confine, in cui ho cercato un’altra volta di superare i miei limiti”.

Tutto nasce da un viaggio.
Avevo bisogno di ripartire da capo. Dopo l’ultimo tour e il concerto a Imola, mi sentivo svuotato. Non nasceva nulla di nuovo, sindrome da pagina vuota. E a Bologna non si vedeva più il sole. Per giorni, per settimane. Era tutto cupo e faticoso. Così, senza meta, sono partito.

Antigua, Miami, Memphis, Nashville.
Poi El Paso, Joshua Tree, Los Angeles, Seattle. Tappa dopo tappa ho capito che il tema del viaggio erano le origini. Quelle del rock, del country, del pop. Elvis, Johnny Cash, gli U2, il grunge. Più tornavo indietro e più mi ritrovavo. E cominciavano a sgorgare nuove canzoni.

Infine l’Alaska.
Nel frattempo mi aveva raggiunto un amico, lo stesso con cui vent’anni prima ero andato in Argentina per un altro viaggio della rinascita, quando credevo che la mia carriera fosse già finita. Atterro e mi viene subito da dire: “Alaska baby”. Ecco il titolo del disco. A Fairbanks abbiamo atteso l’aurora boreale: non sarei mai ripartito senza vederla. D’un tratto è comparsa, bella come nient’altro. E sono tornato.

Il nuovo singolo sta andando benissimo e hai venduto 500mila biglietti in un amen. Eppure non sembri placato.
“La mia creatività nasce quasi sempre da una pozzanghera di dolore, e poi provo paura quando devo uscire verso l’infinito della felicità. Sono fragile come un’anima dannata e non credo di avere raggiunto veramente il successo. Non vivo mai il presente, mi sento costantemente proteso verso il futuro”.

Non brilli per leggerezza.
Mi interrogo da sempre sul concetto di eternità. A 8 anni ascoltai Acqua azzurra acqua chiara: folgorazione. Mi chiusi nella mia cameretta e pensai che volevo entrare nella storia della musica: non dico un capitolo intero su di me, ma almeno una pagina sì. È una sorta di ossessione. Non metto niente davanti alla mia carriera.

Neanche la vita privata?
Neanche. Tutte le mie campagne mi hanno detto almeno una volta: “Le canzoni non sono la vita reale”. E non c’è frase più dolorosa da sentire, perché nulla per me è sopra l’arte. Io comunico con le canzoni. E questo mi sfilaccia l’anima. Mi preoccupa di più l’integrità della mia anima che non le tante sigarette che fumo di fila per scrivere. Tra l’eternità artistica e la salute fisica, sceglierei tutta la vita la prima opzione.

Una vita così porta a ferire e ferirsi.
Senza dubbio, ma è come il Mastroianni di Fellini: sarebbe bello non ferire nessuno, ma è impossibile. Se Fellini non avesse ferito, non sarebbe stato Fellini. Così Mastroianni. E così, nel mio piccolo, io.

Pari sistematicamente lambito dai demoni.
Non voglio dare di me un’immagine troppo tetra, so scherzare e divertirmi anch’io, ma penso molto e ho una propensione abbastanza spiccata all’autodistruzione. Ho sempre bisogno di qualcosa che mi plachi.

Le canzoni?
Non necessariamente, quelle nascono anche e soprattutto dal dolore. A salvarmi sono più che altro la mountain bike e le camminate in montagna.

Parli da outsider, ma fai numeri record.
Non è sempre stato così. Il mio primo disco solista, dopo la fine dei Lunapop, si rivelò – in relazione alle aspettative – uno dei più grandi flop nella storia della discografia italiana. Per anni, al sud, mi sono esibito gratis nelle piazze. Anche Maggese è un disco a cui tengo molto, ma il tour nei teatri fu un bagno di sangue. Se non altro mi insegnò molto.

Cosa?
All’epoca ero una grandissima testa di cazzo, un ragazzino che aveva già avuto tutto. Quei fallimenti mi spinsero a viaggiare, proprio come per questo disco. Nel 2003 partii senza meta per l’Argentina, con lo stesso amico che mi ha accompagnato un anno fa in Alaska. Tornai e scoprii voracemente i cantautori, soprattutto Dylan e Gaber. Della vita non sapevo nulla e mi misi a studiare come un matto. Avevo 20 anni, ma di colpo me ne trovai addosso 60: ero già vecchio. In questo senso, Alaska Baby ha una forza e uno slancio da opera prima.

Perché?
Non voglio diventare un tirabuoi dell’industria discografica, come capita a troppi miei colleghi. È un disco di rinascita, quasi come il Dylan del ’66 dopo l’incidente in moto, figlio anche di cambiamenti notevoli nella mia vita. La perdita di mio padre e l’abbandono del mio manager storico: mi ha scoperto e dato tanto, ma era anche molto possessivo e ha avuto nei miei confronti un atteggiamento da colonnello Parker con Elvis.

Tuo padre cosa ti ha insegnato?
La generosità, il guardare sempre avanti e il non ostentare la ricchezza. Era medico, e quando andava a visitare i pazienti poveri non prendeva mai la Bmw: non voleva mancargli di rispetto. Io lo accompagnavo ed ero felice. Era un uomo sereno. Se n’è andato a 94 anni, e prima di morire volle vedere unicamente mia madre. Forse, solo a quel punto, un po’ di paura gli venne. Per questo cercava serenità negli occhi e nelle parole della donna della sua vita.

Come ti definiresti?
Forse un intimista non etichettabile. Per certi versi “uno scarto della discografia”, che rappresenta l’ultima generazione che ha conosciuto i cantautori storici e che ha fatto in tempo a vivere la discografia “vera”. La mia musica tiene insieme Dalla e Venditti, Dylan e i Queen. Dopo è cambiato tutto. Infatti mi sento abbastanza solo. E in tivù non mi sento per niente a mio agio.

Cosa ti manca?
La credibilità, secondo molti. Il successo coi Lunapop mi ha fatto partire ad handicap di fronte a una certa critica, e un po’ ne soffro. Ma è anche questo che mi spinge a esigere il massimo da me stesso.

La tua dote maggiore?
Sento molto bene il dolore, sono particolarmente ricettivo. Pure troppo. Esistono canzoni di design e canzoni stravere. Io scrivo entrambe, e le più note sono quasi sempre le prime. Nessuno vuole essere Robin è stravera, nata in cinque minuti e dettata da un’urgenza che quasi mi strozzava. È così piena di dolore che molti fans non riescono ad ascoltarla. Io stesso non potrei scrivere un disco con solo brani come quello o Ragazze facili.

Una canzone a cui tieni oltremodo.
Per uno come me che vive nel dolore e nella vita privata tende a indossare maschere, Ragazze facili è stato un mettersi interamente a nudo. È un’opera nata pensando a Giorgia (Cardinaletti, la sua ex compagna, Ndr), che mi ha chiesto con candore di essere amata e mi ha spinto a trovare il coraggio di amare. Una delle cose che mi e ci fa più paura. Poi la canzone è diventata proprio questo: una riflessione universale su questa nostra paura di amare, sulla mancanza di coraggio, sull’indossare maschere. Anche musicalmente ci ho litigato per mesi, e alla fine è diventata una vera e propria opera, con continui cambiamenti di ritmo e di genere. Ha deciso lei come venire, ed è stata l’unica canzone di tutta la mia carriera con cui ho “perso”, perché alla fine l’arrangiamento vincente lo ha scelto letteralmente lei. È uno dei brani più importanti della mia vita. Ragazze facili mi devasta. Non riesco a spiegarla e se la ascolto piango. Dentro c’è il trapasso, c’è la redenzione. C’è tutto (si ferma, si commuove).

San Luca, che canti con Luca Carboni, è splendida.
(Cesare sospira e fa un’altra lunga pausa). È la prima canzone che ho scritto, ma l’ho messa da parte, quasi che aspettassi qualcosa. Poi, un giorno, leggo l’intervista a Luca sul Corriere della Sera, quella in cui ha raccontato la malattia. A Bologna lo sapevamo tutti e le voci lasciavano presagire il peggio. Mi sento così felice della sua guarigione che, senza pensarci, lo chiamo. Lui viene da me in studio e canta San Luca, dedicata a una chiesa bolognese tanto cara a lui quanto a me. Scopro che si chiama Luca per quello e che, durante la malattia, andava a pregare proprio lì: senza saperlo, stavamo chiudendo entrambi un cerchio. Lo vedo cantare, mi commuovo. Sua moglie piange. Era la canzone perfetta per lui, osservandolo avevo la sensazione che stesse rinascendo. Una delle emozioni più grandi della mia vita. Mi sono sentito in pace con me stesso come altre volte (si commuove ancora).

Bologna per te è centrale.
Potrei vivere solo qui. Quando vado allo stadio, lo faccio con un gruppo di ottantenni. Mi fanno respirare un clima sano, un antidoto al troppo ego. Sono anche stato calciatore, ed ero proprio come sono adesso da cantante: segnavo i gol difficili e sbagliavo quelli facili.

Sei molto amico di Valentino Rossi.
È il mio partner in crime. Musica e sport sono molto simili, ma c’è una grande differenza. Nello sport il merito è oggettivo: ci sono i record, i numeri. Nella musica invece è tutto dannatamente soggettivo. Non hai mai la prova di essere oggettivamente bravo. Per questo a Vale invidio soprattutto una cosa.

Quale?
I record. Sono qualcosa che resterà. Magari potessi averli anche io: significherebbe avere la certezza di essere eterno, di lasciare qualcosa di definitivo come artista. Però è buffo, perché Valentino invidia me. Darebbe tutto per tornare a correre, e ogni volta mi dice: “Ma che cazzo te ne frega dei record!? Tu potrai cantare fino a 100 anni, io invece ho dovuto smettere a 40. Ti rendi conto della fortuna che hai?”.

Te ne rendi conto?
No, o almeno non credo. Ma questo disco mi fa sentire vivo, ed è ciò che più conta.

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