La campagna

#Unite, il racconto di Manuela Piemonte – Le donne, i violenti e quel vaso blu cupo come le notti di guerra

#unite #rompiamoilsilenzio - Dopo l'omicidio di Giulia Cecchettin, Giulia Caminito e Annalisa Camilli hanno invitato scrittrici e giornaliste a scrivere per denunciare la violenza di genere e la cultura di sopraffazione che ne è il fondamento. Pubblichiamo il racconto di Manuela Piemonte, che aderisce all'iniziativa

Di Manuela Piemonte
17 Gennaio 2024

Questo racconto di Manuela Piemonte, che da venerdì 19 sarà in libreria con la raccolta “Le ciclopi” (Nutrimenti editore), è parte di una campagna nata dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin, quando presso la libreria Tuba di Roma si è svolta una lettura pubblica di “L’invincibile estate di Liliana” di Cristina Rivera Garza (SUR, 2023). Giulia Caminito e Annalisa Camilli hanno invitato scrittrici e giornaliste a scrivere per denunciare la violenza di genere e la cultura di sopraffazione che ne è il fondamento. Alla campagna hanno aderito oltre 80 scrittrici, dall’inizio di gennaio è iniziata la pubblicazione dei racconti su giornali, siti e blog. Si svolgeranno anche eventi con letture dei testi, il primo confermato è il 4 marzo 2024 al Teatro Manzoni di Roma. #Unite #Rompiamoilsilenzio


Il vaso blu

Il vaso comparve in un mattino di giugno tra gli scatoloni in fondo al magazzino. Dopo tanti anni era impossibile risalire alla sua origine e comunque non sarebbe stato necessario, in fondo si trattava di un soprammobile da appoggiare in un angolo e dimenticare come le frasi di circostanza. La commessa lo scelse tra tanti, si intonava all’abito arancione del manichino in vetrina, l’accostamento cromatico creava la giusta atmosfera vintage per attirare i clienti.

Il negozio apparteneva a una signora che per mestiere rastrellava scarti delle esistenze e li metteva in vendita nella sua bottega. L’attività non risentiva della crisi, le persone erano disposte a indebitarsi per possedere un pezzo di vita degli altri.

Poco dopo le undici entrò una ragazza mora, con il piercing al sopracciglio e una borsa a tracolla. Scriveva di continuo sul telefono, masticava chewing-gum e scrutava ogni ripiano. Si avvicinò al bancone e domandò se avessero una sezione dedicata al giardinaggio, cercava un’idea per un’amica, un oggetto particolare, adatto alla scenografia di una diretta su Instagram. Ben presto si fissò sul vaso blu. Chiese il pacco regalo e uscendo augurò buona giornata.

In vetrina restò un vuoto cromatico, mentre cercava come riempirlo la commessa si ricordò della raccomandazione ricevuta il primo giorno di lavoro: l’ultimo scatolone in fondo al magazzino non avrebbe mai dovuto essere aperto, né il suo contenuto messo in vendita. Sperò che la sua capa non si rendesse conto dell’errore.

Poche ore dopo la ragazza con il chewing-gum suonava a un campanello. Joan si era trasferita lì da pochi mesi, la casa aveva l’aria spoglia di un’esistenza in attesa di compiersi. Non si vedevano da tre giorni ma si abbracciarono come dopo secoli. Il citofono cominciò a suonare, le stanze si riempirono di invitati, bicchieri compostabili ricolmi di prosecco e salatini del discount in ciotole dall’aria esotica. Il ragazzo con il ciuffo arrivò poco dopo mezzanotte insieme ad amici in comune, doveva fermarsi il tempo di bere due bicchieri e andare altrove.

Joan era sicura che si fossero già visti ma evitò di chiederlo, lo ascoltò parlare di un film appena uscito sulle piattaforme, lo guardò con la certezza di averlo già incontrato e di averlo osservato con lo stesso desiderio, in altre feste e appartamenti. Il ricordo le sfuggiva, esile come un odore portato dal vento. Joan non voleva insistere su un dubbio insignificante, almeno il giorno del suo compleanno si sarebbe concessa la leggerezza di ballare, tagliare fette di torta, salutare gli ospiti, invitarli a un brindisi.

Le ore passavano, l’orologio segnava le due di notte, avevano abbassato il volume della musica e delle voci. Ormai era una questione di minuti prima che lui e Joan restassero soli.

Il vaso comparve in un mattino di ottobre, uscì dagli scatoloni appena consegnati. Carla non ricordava di averlo inserito nella lista nozze, comunque lo trovò gradevole. Lo appoggiò sul tavolino all’ingresso, accanto alla finestra e al telefono.

Si erano trasferiti da pochi giorni e lei nel nuovo quartiere pativa il silenzio. Gli ultimi palazzi erano ancora burattini incompleti e muti, il cartello sul viale annunciava una consegna a marzo 1958.

L’anno dopo nacque la loro figlia. La quiete sparì dalla casa e al suo posto arrivò un’energia diffusa, costante, dall’aroma di gelsomino. Il vaso la assorbì, se ne intrise, mentre la bambina cresceva, si diplomava e si iscriveva all’università; era già ragazza un giorno quando uscì per andare a lezione e non tornò.

Il padre e la madre si rivolsero al maresciallo, furono costretti ad ascoltare i suoi rimproveri per l’attitudine pessimista, da genitori apprensivi. Loro non avevano colpa se la figlia aveva deciso di scappare, ce n’erano tante come lei, le ragazze seguivano i loro capricci, il mondo era cambiato, nemmeno la mano salda di un padre le poteva trattenere. Nella sua voce era racchiusa una violenza intrecciata all’aria come seta e la madre la indossò, le permise di avvolgerle il corpo, di toglierle il respiro. Lei da quel giorno dei suoi tormenti non parlò a nessuno, a eccezione di un’amica a cui telefonava di tanto in tanto. Il vaso, lì accanto, dal tavolino ascoltava e si riempiva delle parole di ogni persona a cui lei chiedeva informazioni, dettagli, indizi. Quando chiamò il giornalista amico di amici, lui la liquidò con poche frasi, le spiegò che le ragazze scomparse non sempre finivano in prima pagina, la gente si fissava su alcuni casi specifici ma gli altri restavano nei trafiletti di poche righe, non servivano ad aumentare le tirature.

Il quartiere intanto si era riempito di voci, pianti e risate di bambini, liti tra coniugi, pranzi di Natale e Ferragosto, voci e melodie dagli altoparlanti dei televisori. Le signore avevano preso a parlarsi da un balcone all’altro, a volte sussurravano della ragazza scomparsa, del dolore dei genitori, a poco a poco non sussurrarono più.

Le arti divinatorie di sua madre erano parte dell’arredamento, come il tavolo e il calendario. Era un pomeriggio di maggio del 1992 e Melissa, la proprietaria della bottega vintage, aveva appena compiuto trent’anni. Sedeva in cucina, con la caffettiera fumante e la donna che l’aveva messa al mondo seria come una sfinge sulla sedia. Sua madre come ogni madre aveva sempre da ridire su qualcosa e quel pomeriggio se la prendeva con il vaso blu.

Il giorno prima Melissa si era spinta ai margini della periferia, aveva pagato poche banconote al gestore della discarica e si era presa un nuovo lotto di merce. Lui certificava l’avvenuto smaltimento e Melissa portava via tutto ciò che si poteva vendere. Il vaso blu l’aveva colpita fin dal primo istante, spiccava nel magma di relitti di un appartamento svuotato da poco, erano stati gente perbene, lo rivelavano i soprammobili.

In quel momento il vaso si trovava in cucina, al centro del tavolo, in attesa dei fiori.

Sua madre lo toccò con un dito e poi più forte, con tutta la mano, per farlo tintinnare. Nella ceramica erano catturati i singhiozzi di una donna sola e confusa, la sua rabbia contro il mondo che le aveva inghiottito la figlia, tutto compresso in un tintinnio.

Lo senti il suono che fa?

A me sembra normale, rispose Melissa.

Ma di chi era?

Se dovessi sapere da dove viene tutta la roba che vendo… a volte è meglio non saperlo, la vendo e basta.

Ha un’energia strana.

Finirono il caffè e uscirono a passeggiare, Melissa accompagnò la madre alla fermata dell’autobus, fumò una sigaretta e al ritorno si preparò per la palestra.

Stava per uscire ma squillò il telefono. L’apparecchio era in cucina e quando prese in mano la cornetta Melissa guardò il tavolo e il vaso blu, il suo colore intenso e cupo come le notti di guerra.

Si aspettava che fosse l’uomo dalla voce roca, anche se come ogni altra volta sperava di sbagliarsi. Erano usciti poche volte, Melissa aveva troncato subito, ma lui non smetteva di chiamare. Le domandò se avesse pensato all’invito e lei come ogni altra volta disse di non avere intenzione. La voce rabbiosa uscì dalla cornetta e raggiunse il vaso. Un tremore breve e intenso, di cui si percepiva l’energia: Melissa questa volta capì le parole di sua madre.

Anziché andare in palestra, tornò in negozio e nascose il vaso in fondo al magazzino. Per anni avrebbe raccomandato alle sue commesse di non toccare nulla, per anni avrebbe intimato di non aprire mai, per nessun motivo, l’ultimo scatolone nell’angolo.

Un rullante in quattro quarti riempiva la stanza dalla cassa bluetooth, Joan ballava da cinque minuti, gli ultimi invitati ballavano con lei, anche il ragazzo con il ciuffo. Avevano spostato una lampada perché puntandola sul vaso spandeva una luce turchina in tutta la stanza, un effetto da discoteca.

Lui la prese per mano, l’aiutò a fare una giravolta, la tirò lontano senza lasciarla andare, Joan ondeggiò da un capo all’altro della stanza sotto il riflesso lattiginoso del vaso blu. Dopo tre giravolte lui la spinse con troppa forza, Joan si aggrappò alla mensola, urtò il vaso. Quando la ceramica colpì il pavimento e si spezzò in mille frammenti, lei colse un tremolio profondo e sinistro. In quel momento, anziché bere un altro sorso del Cosmopolitan preparato dalla sua amica, ricordò.

La prima volta in cui aveva visto il ragazzo con il ciuffo, lui era mano nella mano di una tipa con l’aria da fotomodella che era rimasta tutta sera appoggiata al muro, come se la festa dell’università fosse la peggior tortura. Dopo un paio di mesi i due avevano smesso di vedersi. A detta di Anna lui non l’aveva presa bene, continuava a chiamare la ex nel cuore della notte, per insultarla e chiederle di uscire.

Joan lo guardò ancora, gli lasciò la mano, certo lui le piaceva molto ma quando fu il momento di finire la festa lei riuscì a salutare tutti, anche lui. Salvò il suo numero in rubrica e gli promise di chiamarlo presto. Chiuse la porta a quattro mandate: restavano lei, i cocci e i rimasugli.

Stava infilando i pezzi del vaso in un sacco nero quando sentì bussare. Lo vide dallo spioncino, il ciuffo sugli occhi e un sorriso che avrebbe potuto essere un ghigno. Bisbigliava frasi dolci per convincerla ad aprire ma lei non rispose, non emise un suono, la sopravvivenza a volte è questione di silenzi e omissioni. Sperò che se ne andasse ma i minuti passavano e lui era lì, batteva sulla porta con le mani, con la spalla, adesso non le chiedeva lasciarlo entrare, glielo ordinava. Il battente cigolava e ribolliva ma rimaneva saldo. Joan compose il numero di emergenza, spiegò in fretta la situazione e dettò l’indirizzo. Mentre li aspettava, mentre le citofonavano, mentre lei apriva e loro salivano le scale, lui continuava a gridare che le avrebbe fatto compagnia, bastava che gli aprisse, non serviva a niente farsi desiderare, non c’era bisogno di darsi le arie, lei glielo aveva fatto capire che aveva voglia, gliel’aveva letto negli occhi, era tutta colpa di Joan.

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