L'intervista

Scioperi Usa, Coin: “Troppe diseguaglianze, il sindacato è tornato a riscuotere consenso”

dottorato di ricerca in Sociologia presso la Georgia State University, negli Stati Uniti. Fino al 2022 ha lavorato come professoressa associata all'università di Lancaster, nel Regno Unito, ora insegna nel Centro di competenze lavoro welfare società del dipartimento di Economia aziendale sanità e sociale (Deass) della Supsi, in Svizzera

27 Settembre 2023

Francesca Coin ha un dottorato di ricerca in Sociologia presso la Georgia State University, negli Stati Uniti. Fino al 2022 ha lavorato come professoressa associata all’università di Lancaster, nel Regno Unito, ora insegna nel Centro di competenze lavoro welfare società del dipartimento di Economia aziendale sanità e sociale (Deass) della Supsi, in Svizzera. Ha uno sguardo sufficientemente ampio e “internazionale” per commentare la serie di scioperi che ha attraversato la società statunitense di cui si è molto occupata anche nel suo libro per Einaudi Le grandi dimissioni che ha provocato un’ampia discussione in Italia.

Qual è la sua idea della serie abbastanza inedita di scioperi negli Stati Uniti?

Lo sciopero indetto nel settore automobilistico da United Auto Workers si inserisce in un contesto di crescente sindacalizzazione che negli ultimi mesi ha visto le categorie più diverse incrociare le braccia e richiedere migliori condizioni salariali, dagli sceneggiatori di Hollywood alle infermiere, dalle bariste di Starbucks ai dipendenti di Ups. In generale, dopo la pandemia il potere contrattuale dei lavoratori negli Usa è aumentato. Da un lato, la piena occupazione ha consentito a circa 100 milioni di lavoratori in due anni di abbandonare il lavoro alla ricerca di condizioni migliori, il fenomeno che è stato descritto come grandi dimissioni, e questi erano anzitutto lavoratrici e lavoratori essenziali consapevoli di svolgere impieghi indispensabili che non erano retribuiti né organizzati adeguatamente. Dall’altro, si è reso gradualmente evidente che, pure in un contesto di piena occupazione, ai lavoratori non venivano date che le briciole: per l’Economic Policy Institute, i salari medi annui del 90% dei lavoratori sono aumentati del 16% negli ultimi trent’anni, di contro alla crescita esponenziale dei bonus quadri aziendali e degli amministratori delegati.

Il sindacato statunitense sostiene che si tratti anche di una reazione esplosiva a diseguaglianze troppo ampie accumulatesi dopo la grande crisi del 2008

Negli ultimi anni, la Gig economy (l’economia dei lavoretti) ha lasciato milioni di persone con paghe misere, mentre le retribuzioni degli amministratori delegati sono salite alle stelle. Per esempio, il sindacato del settore Uaw chiede un aumento salariale del 40% per gli operai, e questo sembra tanto se non consideriamo che l’amministratore delegato delle principali case automobilistiche americane come Stellantis o General Motors riceve un compenso annuo pari a circa 350 volte il salario medio dei lavoratori, intorno ai 25 o 30 milioni di dollari all’anno. In questo contesto non sorprende che il sindacato sia tornato a riscuotere consenso e che diverse categorie di lavoratori siano tornate a vederlo come l’unica possibilità per migliorare le proprie condizioni di lavoro.

Che differenze vede con Italia o l’Europa. C’è un apparentemente arretramento italiano di fronte al dinamismo mostrato dagli statunitensi?

Da entrambi i lati dell’oceano veniamo da anni di forti politiche antisindacali. Negli Usa, l’adesione ai sindacati è diminuita drasticamente negli scorsi decenni, e la ripresa recente deve tener conto del fatto che l’influenza del sindacato è stata a lungo risibile. La ripresa degli scioperi, dunque, è visibile anche perché per lungo tempo la società statunitense è stata divisa e frammentata. In Europa, i sindacati hanno continuato ad avere un ruolo sociopolitica, ma svuotato di vera forza e capacità organizzativa.

Servirebbe una riflessione sull’utilizzo di scadenze centralizzate, come gli scioperi generali, senza un chiaro processo di mobilitazione e obiettivi sufficientemente chiari? Ad esempio aumento dei salari per tutti del 10%?

Temo di sì. Se prendiamo ad esempio la manifestazione del 7 ottobre (indetta dalla Cgil e da una miriade di associazioni, ndr) che mi auguro abbia una enorme adesione, è evidente come questa abbia troppi obiettivi: il lavoro, la precarietà, la difesa della costituzione, il contrasto dell’autonomia differenziata. Tutti questi obiettivi sono giusti, ma rischiano di confondere e di non consentire il reale perseguimento di nessuno di questi. A volte un obiettivo chiaro e preciso, come ad esempio il salario minimo, è più efficace del perseguimento di tanti obiettivi tutti insieme, che rischiano di disperdere le energie, invece di compattarle.

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