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Pronti a governare? Più che la marcia su Roma, qui si fa la marcia indietro

12 Luglio 2023

Fa una certa tenerezza – diciamo spaesata commozione – riguardare ora, dieci mesi dopo le elezioni, quei deliziosi manifesti elettorali con cui la destra italiana di ispirazione post-fascista (la tribù meloniana, per intenderci) si dichiarava “pronta” a governare. Per qualche settimana ci siamo beccati tutti la gragnuola volitiva del “siamo pronti”, cioè eccoci, arriviamo, finalmente, abbiamo studiato, lasciate fare a noi, siamo preparati fino al delirio. Un “siamo pronti” che suonava come la dichiarazione di fiducia dell’ultimo somaro della classe prima dell’orale alla maturità. Come ti senti, Gino? Pronto!

Quindi ci si perdonerà una certa ridarella nel guardare questi “prontissimi” inanellare una serie infinita di stupidaggini, gaffe, pensieri dal sen fuggiti, puttanate varie, scivoloni littori, amenità da sala bigliardi e altro ancora. La ministra con la Maserati che non paga i Tfr, il ministro della Scuola che fa l’elogio dell’umiliazione, il ministro della Cultura che si ripromette – come se fosse un compito titanico, ultra-umano – di leggere un libro al mese (ma quelli per cui vota ai premi non li legge), la fascistissima seconda carica dello Stato, collezionista di busti del duce, che “interroga il figlio” e decide che “non c’è nulla di penalmente rilevante”, la ministra della Famiglia che paragona Daniela Santanchè a Enzo Tortora, e altri millemila articoli del campionario, un’enciclopedia intera.

Pensa se non erano pronti!

Come spesso avviene, la teoria e la prassi fanno a cazzotti. Uno, superficialmente, sarebbe portato a pensare, trattandosi di fascisti in vario grado di colorazione orbace, a una maschia e volitiva rivendicazione, a un perenne “noi tireremo dritto” che gonfia il petto irto di medaglie. Macché, più che la marcia su Roma domina la marcia indietro, la toppa peggio del buco, il rifugio nel sempre meraviglioso “sono stato frainteso”. E dunque intenerisce la flessibilità e la tenera disponibilità all’“abbiamo scherzato”, come quando il ministro della scuola dice che sì, ha detto “umiliazione”, ma voleva dire “umiltà”; o quando il commentatore che scrive una frase schifosa e rischia con quella di giocarsi un posto annunciato in Rai dice che non abbiamo capito, non è il suo stile, siamo cattivi noi, e lui ha scritto un libro “che farà letteralmente storia”. Testuale. Il ridicolo ha rotto gli argini.

Insomma, eccoli qui, tutti quelli che erano così pronti, gente che, beccata a fare il passo dell’oca, comincia a passeggiare come un flaneur, fischiettando: chi, io? Avete capito male. Il tutto condito da revisionismi ridicoli, Storia reinventata, stupidaggini sesquipedali, errori da matita blu. E con la copertura – tipo il mantello dell’invisibilità – che nasconde all’occorrenza le vergogne. Per cui, appena gli si fa notare lo scivolone, eccoli dichiararsi “liberali” – quasi sempre liberali coi soldi di tutti, peraltro – o addirittura “radicali”. E quando molte associazioni, partiti e sindacati francesi chiedono di annullare uno spettacolo della direttrice d’orchestra Beatrice Venezi (“è neofascista”) tutti insorgono: uh, ma è illiberale! Gli stessi che applaudono quando si nega a qualche artista russo di esibirsi in pubblico, e lo trovano, questo, abbastanza liberale per i loro gusti. Lo spettacolo continuerà: il problema è avere una base ideologica e culturale di cui ci si vergogna un po’, farla saltar fuori a sorpresa e poi correggere il tiro, cincischiare scuse patetiche, frignare un po’. Ecco per il vittimismo sì, sono pronti.

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