L’intervista

“Gli orrori di quella chat: maschilismo senza freni”

Alessandr* ex dipendente We are social - Una sera ho letto per ore quei messaggi, ho vomitato due volte... Prima di capire, mi dispiaceva non mi considerassero figa...

22 Giugno 2023

Io parlo e racconto tutto, ma vorrei premettere una cosa: questa storia è la storia della chat di un’agenzia pubblicitaria, ma ‘la chat del calcetto’ è ovunque, questo problema è sistemico”.
Alessandr* (nome di fantasia) accetta di parlarmi del caso del momento, ovvero quello che potremmo definire il #metoo della pubblicità. Da settimane sui social media si accavallano in maniera confusa testimonianze anonime di ragazze che raccontano di molestie subite da colleghi e superiori nelle agenzie di pubblicità, voci di corridoio, accuse precise con cognomi e cognomi, aneddoti inquietanti che fanno riferimenti a molestie verbali, fisiche e addirittura stupri. In questo caos spaventoso che sta facendo tremare le pareti degli uffici di molti intoccabili, una delle storie più torbide riguarda l’esistenza, fino a pochi anni fa, di una chat di 80 dipendenti uomini all’interno della nota agenzia pubblicitaria We are social con a capo Gabriele Cucinella, Stefano Maggi e Ottavio Nava, i quali per ora si sono rifiutati di rilasciare commenti (e non erano nella chat).

Alessandr*, partiamo dall’inizio.

Io avevo poco più di 20 anni quando sono arrivat* in We are social, e questa chat – almeno le cose che ho letto io – sono principalmente degli anni 2016, 2017.

Qualcuno dice che non era una chat di lavoro, ma di cazzeggio.

Ma va. Era uno strumento di lavoro e più precisamente Skype, installato direttamente da We are social. Solo che lì si facevano anche commenti orrendi sulle colleghe, perché nella chat c’erano solo uomini, circa 80.

Ma quindi chi veniva assunto era subito catapultato lì?

Sì. Una volta, ti giuro, arriva un nuovo copy che aveva la mia età, L., e dopo 4 ore al massimo scrive: “Porco D.. ma chi è questa qui? Me la scoperei di brutto!”.

Un rito di iniziazione.

Esatto. Era tipo: se non fai questa roba, non sei uno di noi.

Come veniva giustificato il fatto che esistesse una chat “di lavoro” per soli uomini?

Era anomalo, forse oggi lo spiegheranno come “C’era un we are girls” e un “we are boys”, ma ti assicuro che nella chat delle donne si parlava di cose normalissime, da dove vai in vacanza a dove posso farmi fare uno smalto semipermanente?”. Al massimo “visto che figo Louis Garrel?”.

Mi spieghi bene il clima in We are social?

Un clima da liceo dove le persone invece che avere 14 anni avevano dai 21 ai 32 anni circa, poi c’erano i director di tutti i team che magari ne avevano 40-45, praticamente all’epoca tutti uomini. Quando dico liceo, io intendo il liceo americano nei film con gli armadietti: i maschi sono la squadra di football e le femmine sono le cheerleader e tutti quelli che stanno in mezzo non se li caga nessuno.

Com’era l’ufficio?

Tutto a vetri, concepito come un acquario dove tutti vedevano tutti. E quindi questi energumeni te li vedevi durante la giornata lavorativa stare al computer e sghignazzare. Non c’era un angolo di privacy in quel posto, neanche potevi piangere.

Cosa vedevate dal vetro?

Ad esempio quella che chiamo “la stanza delle umiliazioni”. Uno dei superiori, P., provava gusto nell’umiliare i dipendenti. Entravi lì e ti diceva di tutto, diventava rosso dalla rabbia, ho visto ragazze uscire piangendo, altre persone tremare. Lui era lo stesso che chiedeva a una stagista di andare al lavoro senza mutande o che diceva che non si doveva mai nominare sua moglie nelle chat sessiste.

Chi, tra gli esterni, scopre questa chat?

Io. Una sera esco con un mio amico dell’agenzia, ci facciamo due birrette e mi mostra alcune conversazioni.

E cosa leggi?

Leggo delle robe sconcertanti. Mi spiega che la gente che esce da quella chat viene ributtata dentro. Che chi ti ributta dentro sono i tuoi supervisori, i tuoi direttori creativi, come fai a dire di no? E poi se non ci vuoi stare, “come fai a non trovare niente di divertente? Avrai un commento da fare, Madonna mia, fatti due risate. Cosa sei, frocio?”.

Cosa decidi di fare?

Dovevo lavorare a un computer dell’agenzia, vedo la chat lasciata aperta dal collega e leggo per 4 ore cosa era stato scritto negli anni.

Un viaggio nell’orrore.

Ho vomitato due volte in bagno. Di base, si parlava di fighe che lavoravano nell’agenzia. C’era una sentinella per piano che avvisava quando le ragazze facevano le scale da un piano all’altro. I commenti erano tipo: le toglierei quelle cazzo di mutande.

Succedeva anche durante le riunioni?

Certo. Si scrivevano anche mentre ci si riuniva per un gara. Robe tipo: “perché si è messa il reggiseno? Sapete che io ho un debole per il capezzolo duro!”, oppure: “Sono in riunione con …, ho il cazzo duro da un’ora, ora vado in bagno!”.

Poi?

I capi facevano i colloqui di lavoro a delle tipe nuove, poi quando le tipe andavano via, loro condividevano gli account social di queste ragazze sulla chat e tutti andavano a guardarsi le foto. E quindi commentavano: “Questa è pure buona se viene vestita così” o “Cesso a pedali, le si può mettere un un sacchetto in testa”.

C’era anche di peggio?

Un torneo fatto su un foglio Excel, gestito da una persona, M., che è sempre stato uno dei peggiori di tutti, non a caso in agenzia era venerato e oggi conta anche molto a livello mondiale. Aveva creato questo torneo con delle regole precise, sempre donna contro donna, in cui bisognava votare che so, oggi quella più perfetta per il sesso anale, domani la più perfetta per sesso orale etc… Io penso di aver letto ore di “lei perfetta per la pecorina, le devo far uscire la sbor*a dal naso”…

Altissima filosofia.

Una ragazza aveva abortito. Uno di loro ha scritto: “Lavoro con questa che ha la figa tutta raschiata, penso all’idea di di scoparmela mentre abortisce…”.

La cultura di “Sesso droga e pastorizia” che era in voga in quegli anni.

Esattamente. E quasi tutti gli uomini che lavoravano lì hanno avuto promozioni.

Hai letto anche cose su di te?

Sì. Erano agghiaccianti. Quasi mi vergogno a dirlo perché ovviamente ero molto divers* rispetto a oggi, ero triste all’idea che queste persone non volessero scoparmi, mi faceva sentire emarginat*.

Cosa hai fatto?

Io e una collega abbiamo detto tutto a una delle nostre superiori. L’abbiamo vista entrare in questa stanza di vetro, tenere una conversazione per un totale di 10 minuti, è uscita e ci ha detto: risolto!

In che senso?

La chat è sparita e non si è mai più parlato di nulla. Io mi sono licenziat* e ho fatto due anni di psicoterapia.

Perché le donne non hanno fatto gruppo?

Perché era una situazione di difficile gestione, alcune avevo avuto relazioni con collegi o erano amiche, altre avevano paura, le notizie erano frammentarie e poi non c’era ancora la grammatica che abbiamo oggi a disposizione, non c’era un vera cultura sul tema.

Cosa ti ha fatto più incazzare di questa storia?

Una cosa su tutte. Nel 2021 vedo che We are social fa questa campagna pubblicitaria sulla violenza sulle donne con Vodafone, una raccolta di storie che aiutano le donne a identificare la violenza di genere. Sono andat* a commentare: “bellissima campagna, bravi! Spero che internamente abbiate messo in atto una serie di iniziative per individuare la violenza di genere, visto che come sapete non è una cosa che succede solo tra le mura domestiche”.

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