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Vietato parlare con i giornalisti: il bavaglio Cartabia ricorda il Ventennio

1 Marzo 2023

La libertà è come l’aria. Ti accorgi che ti manca quando a poco a poco fai sempre più fatica a respirare. Così accade che in un Paese da barzelletta come il nostro, un gruppo di persone strapagate, spesso incompetenti, sempre cooptate dai propri partiti e mai elette direttamente dai cittadini, decidano di approvare nel 2021 una norma falsamente contrabbandata come “legge sulla presunzione d’innocenza”.

Nel silenzio complice e servile di buona parte della stampa, incapace di alzare solo il sopracciglio davanti a qualsiasi scelta fatta dal governo Draghi, la norma vieta di parlare con i giornalisti ai magistrati e alle forze dell’ordine impegnate in ogni tipo d’indagine. Se lo fanno rischiano sanzioni penali e disciplinari. Le uniche informazioni che possono essere diffuse, spiega il cialtronesco legislatore, saranno d’ora in poi quelle ritenute di interesse pubblico da un signore (o una signora) che di mestiere fa il procuratore della Repubblica e che spesso non sa distinguere una notizia da un paracarro.

Ebbene, oggi gli effetti della tartufesca trovata cominciano a percepirsi con chiarezza. E non si limitano all’agognato e non dichiarato scopo della legge: cioè evitare che i nomi dei politici, dei loro amici e sodali finiscano di tanto in tanto in articoli in cui si narrano vicende poco lusinghiere. C’è di più e persino di peggio. Perché pur non ricorrendo a un’esplicita censura, ma più astutamente mettendo il bavaglio alle fonti, i sedicenti democratici stanno ottenendo lo stesso risultato che nel 1928 si era prefisso Benito Mussolini quando emanava circolari con cui imponeva la “smobilitazione della cronaca nera, con particolare riferimento alle notizie di suicidi, tragedie passionali, violenze e atti di libidine, e altri fatti che possano esercitare una pericolosa suggestione su gli spiriti deboli od indeboliti”.

Così ora accade che vi siano assassini arrestati in flagranza di reato di cui per giorni e giorni nessuno conosce il nome. O vittime di incidenti sul lavoro di cui è impossibile scrivere non solo l’identità, ma pure la ragione sociale dell’azienda luogo della tragedia. Con risultati paradossali non per la curiosità dei lettori, ma per il diritto di sapere di tutti i cittadini. A Palermo succede spesso che nessuno conosca il nome dei locali della movida chiusi o sanzionati dai vigili perché scoperti con escrementi di topo sul cibo o bibite scadute. La polizia municipale diffonde sì un comunicato, ma senza indicazioni. Sono possibili i ricorsi e nessuno vuole correre il rischio di essere accusato di aver violato la presunzione d’innocenza. E così i clienti continueranno a frequentare i bar incriminati o a non sapere perché hanno avuto tanto mal di pancia.

Gli esempi si sprecano. Qualche giorno fa sul sito de Il Fatto, Giuseppe Pipitone e Paolo Frosina ne hanno elencati a decine. Alcuni dei quali sconcertanti. Tipo l’impossibilità di ricevere notizie dalla centrale operativa dei vigili di Milano su un incidente causato da un tram in centro. Terrorizzate dalla teorica possibilità di venir punite, le fonti tengono la bocca cucita e consigliano di rivolgersi all’assessore (che dovrebbe avere cose più importanti da fare, ndr).

Cosa abbia tutto questo a che fare con il diritto all’informazione che distingue le democrazie dai regimi non è chiaro. È chiaro invece che questa schifezza deve finire. Non per noi giornalisti (le notizie da pubblicare ogni giorno sono talmente tante che avere o non avere facilmente quelle di nera non fa la differenza), ma per i sudditi. Pardon, i cittadini.

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