Carlo Emilio Gadda

In guerra per la mia porca patria. “Una tragica orribile vita”

I diari inediti dal fronte - “Ho patito tutto: la povertà, l’umiliazione, lo scherno per finire a Caporetto...”

24 Gennaio 2023

“Acquistai questo quaderno oggi, in Edolo, al Bazar Edolo”. Così inizia, il 24 agosto 1915, l’autografo “Diario del Gaddus”, il Giornale di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda, di cui oggi Adelphi pubblica la Nuova edizione accresciuta a cura (sapiente e amorevole) di Paola Italia. Con la pubblicazione, due anni fa, delle lettere inedite alla madre e alla sorella (La guerra di Gadda – Lettere e immagini 1915-1919, Adelphi), si completa così l’opera straordinaria scritta nei “51 mesi” di “atroci dolori” dal sottotenente e poi tenente del 5° Reggimento Alpini, con sei quaderni inediti di proprietà degli eredi di Alessandro Bonsanti, direttore del Gabinetto Vieusseux e corrispondente di Gadda, foto dall’Archivio Liberati e tavole originali, fitte della calligrafia elegante e obliqua di Gadda, partito volontario insieme al fratello Enrico per la guerra che gli sottrarrà la “inesistita giovinezza”.

Il ventiduenne Gadda sente la guerra come un’occasione etica di altissimo intento, un modo per tradurre la volontà “di fare qualche cosa per questa porca patria, di elevarmi nella azione, di nobilitare in qualche maniera quel sacco di cenci che il destino vorrebbe fare di me”. Ha il culto della Patria e della Famiglia, testimoniato dalla devozione per la memoria dello zio Giuseppe, mazziniano, protagonista delle Cinque giornate di Milano. L’impresa in cui si imbarca, “necessaria e santa”, è anche occasione di riscatto dalla sua vita di “shocks”, al plurale: le privazioni, la timidezza, i risparmi dei genitori buttati nell’insensata costruzione di una villa in Brianza, dove il padre aveva aperto un allevamento di bachi da seta. La guerra, come poi la scrittura, è un mezzo per “rispristinare la sua verità”; la sua missione è la stessa di Amleto: rimettere in sesto il mondo.

“Appena sento il rumore della battaglia”, scrive nel 1916 dal Monte di Busibollo sopra Vicenza, “appena i cannoni urlano nelle foreste, una specie di commozione sovrumana mi pervade l’anima”. Sono i giorni in cui si cristallizzano le ossessioni future: la misantropia, il rifiuto dei “taliàn”, “razza di maiali, di porci”, la disistima per le gerarchie, l’odio per l’improvvisazione dei superiori: “Asini, asini, buoi grassi, pezzi da grand hôtel; ma non guerrieri, non pensatori, non ideatori, non costruttori; incapaci d’osservazione e d’analisi, ignoranti di cose psicologiche, inabili alla sintesi”. La mente iperlogica del futuro ingegnere soffre degli urti della guerra meno che della “deficienza del mondo”, che comincia ad appalesarsi ai suoi occhi e diventerà uno dei fulcri della sua filosofia (massimamente espressa nel Pasticciaccio). È costretto a marciare con scarpe rotte: “Se ieri avessi avuto innanzi un fabbricatore di calzature, l’avrei provocato a una rissa, per finirlo a coltellate”.

Attraverso le crepe della trincea, Gadda intravede il marcio, inestricabile groviglio del mondo. Vorrebbe combattere in prima linea, eroicamente, ma complicanze burocratiche lo intralciano: “La persecuzione che la burocrazia (personificata dal disordine e dall’insufficienza mentale di tutti i miei compatrioti) esercita su me, mi atterrisce”. Nel 1917 diventa tenente (“Sono contentone, allegro”, scrive alla madre), ma il 25 ottobre viene fatto prigioniero a Caporetto, e rinchiuso prima nel campo di Rastatt, poi nel lager di Celle, a Hannover. Negli spostamenti perde alcuni dei taccuini (da qui la lacuna oggi sanata): benché il modello siano i quaderni di Cesare, come testimonia la firma in terza persona (“Gaddus scribit”), ogni quaderno reca l’epigrafe virgiliana Prospexi Italiam summa sublimis ab unda, “scorsi davanti l’Italia, innalzato in cima a un’onda”. Non vede la Patria; vede i compagni morire: “È orribile la tragedia dell’uomo che ha fatto il suo dovere, che è rimasto ferito, che soccombe così, poche ore sotto l’aurora”.

Deperisce; recita Dante; impara il tedesco sotto la guida di Bonaventura Tecchi; il suo cuore rallenta a 45 battiti al minuto; la fame lo divora: “Raccolgo da terra la buccia, la briciola; trangugio la resca di merluzzo”. Sulle macerie e sul dolore si edifica il laboratorio di una scrittura inaudita. Nel settembre 1918 considera la sua vita: “Non un sorriso di giocondità ha rallegrato i miei giorni distrutti; ho patito tutto, la povertà, la morte del padre, l’umiliazione, la malattia, la debolezza, l’impotenza del corpo e dell’anima, la paura, lo scherno, per finire a Caporetto, nella fine delle fini. Non ho avuto amore, né niente”.

Ha un orribile presentimento: “Inquietudine per mio fratello, per la sua sorte”, scrive l’8 novembre; non sa che Enrico è morto già ad aprile, precipitato col suo aereo sopra Asiago. Lo apprenderà di ritorno a Milano, “la patria vuota”, il 14 gennaio 1919: “Mi risponde piangendo la mamma: ‘Enrico è andato di quà, di là…’. La tragica orribile vita. Non voglio più scrivere; ricordo troppo. Automatismo esteriore e senso della mia stessa morte: speriamo passi presto tutta la vita”.

Cognizione, come avrà a dire dopo l’inopinato successo come scrittore, è il graduale avvicinamento a una nozione, che può essere lento, penoso, amaro, e comportare il passaggio attraverso esperienze strazianti della realtà: constatare la morte delle possibilità, negare al divenire ogni candore, è la cognizione del dolore.

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