Ambiente svenduto

Con il “Salva Ilva” il governo torna ai Riva. Pm disinnescati su inquinamento e incidenti

Il nuovo decreto - Non si potranno sequestrare gli impianti, e c’è una nuova immunità

Di Francesco Casula e Carlo Di Foggia Icons/ascolta
30 Dicembre 2022

di Francesco Casula e Carlo Di Foggia

Il nuovo decreto Salva Ilva è un passo indietro di dieci anni, ai tempi in cui la famiglia Riva gestiva la fabbrica di Taranto con unico diktat: la produzione a ogni costo. Il provvedimento varato mercoledì dal governo Meloni fa suo il principio di funzionamento della famiglia ex proprietaria della fabbrica di Taranto cancellando con un solo provvedimento di dieci articoli tutti gli interventi della magistratura.

Il nuovo decreto, stando al comunicato (un testo ancora non c’è), prevede che anche quando “sussistano i presupposti per l’applicazione di una sanzione interdittiva che possa determinare l’interruzione dell’attività dell’ente, il giudice, in luogo dell’applicazione della sanzione, dispone la prosecuzione dell’attività dell’ente tramite un commissario”. In sostanza, se l’ex Ilva dovesse continuare a inquinare, i giudici non potranno sequestrare la sorgente inquinante, ma dovranno affidarsi a un commissario. Non è chiaro, al momento, chi dovrà nominarlo e quali margini di intervento avrà su un impianto che comunque è gestito da Acciaierie d’Italia.

Una norma che richiama quella varata nel 2012 dall’allora ministro Corrado Clini e bocciata dalla Corte costituzionale, ma con una differenza non di poco conto. Quell’Autorizzazione integrata ambientale doveva essere realizzata nel 2015, quindi in tre anni: quel lasso di tempo, per la Consulta era accettabile per bilanciare diritto al lavoro e diritto alla salute. Il nuovo provvedimento, invece, interviene a distanza di dieci anni da quel sequestro, quando sulla vicenda Ilva sono intervenute diverse volte anche le istituzioni europee: la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha condannato per due volte lo Stato italiano, ritenendolo colpevole di aver sacrificato il diritto alla vita dei cittadini di Taranto sull’altare della produzione d’acciaio. A questi si aggiungono le procedure di infrazione e anche un rapporto dell’Onu che ha definito Taranto come una “zona di sacrificio”.

A breve sarà la Corte europea di Giustizia a doversi esprimere: il Tribunale civile di Milano l’ha infatti chiamata in causa su tre questioni cruciali che riguardano il rispetto della normativa Ue sulle emissioni, la prevenzione e riduzione dell’inquinamento. La normativa europea, infatti, prevede che gli impianti possano essere autorizzati a produrre solo se in possesso di un’autorizzazione di cui devono rispettare le condizioni: i tempi di adeguamento all’Autorizzazione integrata ambientale per Ilva sono stati più volte prorogati nel corso degli anni. Per questo il Tribunale ha chiesto ai giudici Ue di esprimersi in merito alla possibilità che le norme contenute nella direttiva del 2010 siano di fatto inapplicate perché l’Italia pur “in presenza di un’attività industriale recante pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute umana” ha differito “il termine concesso al gestore per adeguare l’attività industriale all’autorizzazione concessa, realizzando le misure ed attività di tutela ambientale e sanitaria ivi previste, per circa sette anni e mezzo dal termine fissato inizialmente e per una durata complessiva di undici anni”.

Ma non è tutto. Il nuovo decreto garantisce l’attività produttiva non solo in caso di violazione delle norme ambientali, ma anche, per esempio, in caso di incidenti per mancanza di sicurezza nella fabbrica. Un copione già visto: nel giugno 2015, nell’Altoforno 2, morì Alessandro Morricella, la magistratura tarantina sequestrò l’impianto negando la facoltà d’uso perché non era sicuro per gli operai, ma il governo Renzi la concesse, via decreto, nonostante i lavoratori fossero in pericolo. Com’è finita? Qualche anno dopo la Consulta l’ha bocciato. Una storia che il nuovo governo ha dimenticato.

Dal testo del comunicato post Cdm, peraltro, non è scongiurato il rischio che il provvedimento reintroduca lo scudo penale voluto a suo tempo dal governo Renzi per neutralizzare la magistratura anche contro i vertici della società: un salvacondotto contro il quale i pm avevano fatto ricorso alla Consulta, poi eliminato dal Conte-2: ora rischia di essere retroattivo, e varrà per tutti gli impianti di “interesse strategico nazionale” (per ora solo Ilva). Per Angelo Bonelli è “un vergognoso salvacondotto di Stato”.

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