Il Pd tracolla e Letta paga per tutti: verso le dimissioni già oggi

Subito cominciato il processo interno. L’uscita del segretario annunciata per mezzanotte sparisce dall’agenda

La parola “dimissioni” aleggia nell’aria ancor prima che si chiudano le urne. Ma resta sospesa, nell’attesa che lo spoglio dica quanto è nera una serata che si annuncia nerissima. Sono le prime proiezioni che danno la misura della sconfitta: il Pd è intorno al 19%, stabilmente sotto il 20%, si avvicina al 18% di Matteo […]

oppure

La parola “dimissioni” aleggia nell’aria ancor prima che si chiudano le urne. Ma resta sospesa, nell’attesa che lo spoglio dica quanto è nera una serata che si annuncia nerissima. Sono le prime proiezioni che danno la misura della sconfitta: il Pd è intorno al 19%, stabilmente sotto il 20%, si avvicina al 18% di Matteo Renzi. I dem sono largamente sotto la soglia psicologica del 20%. “È una serata triste”, dice Debora Serracchiani, quando si presenta davanti alle telecamere all’1 e 15. E mentre dice che “siamo la prima forza di opposizione” il tono è lugubre, le parole escono stentate. Fino a quel passaggio in cui dice che “la destra non è maggioranza nel paese, anche se in Parlamento”. Poi, si alza e se ne va. Senza domande. In effetti, i voti sommati di Pd, M5S e Terzo Polo sommati fanno più del centrodestra. Il Campo largo che non fu.

L’uscita del segretario annunciata per mezzanotte sparisce dall’agenda. Dovrebbe pronunciare il messaggio dell’addio, ma non è una decisione facile. Al Nazareno insieme a lui ci sono Lorenzo Guerini, Dario Franceschini, Roberto Speranza, le capogruppo Simona Malpezzi e Serracchiani. Non c’è Andrea Orlando, rimasto in Liguria. Nessuno vuol mettere la faccia sulla sconfitta. E mentre i big cercano di decidere chi e quando deve apparire davanti alle telecamere, il primo a parlare a Porta a Porta è Francesco Boccia. “È evidente che si aprirà un’altra stagione con i Cinque Stelle dopo che avremo capito quali sono i numeri”. È il rompete le righe, un cambio di direzione, che racconta come l’alleanza con M5S ridiventa una priorità, visto il quasi pareggio con Giuseppe Conte. Ma per questo, ci vuole un altro segretario. Addirittura un altro Pd. Alla fine, sale la Serracchiani, dopo ore sempre più difficili.

Sulla terrazza, alle 22, ci sono le troupe delle tv, si materializza qualcuno dello staff di Letta. Le espressioni sono più eloquenti delle parole. Alle 23, gli exit poll danno le cifre fatidiche: il Pd è tra il 17% e il 21%. La forchetta è ampia, ma le previsioni della vigilia si avverano. Non è solo una sconfitta, è molto di più. Peraltro, con il Terzo Polo che non sfonda ma prende comunque intorno al 7%, il ruolo del perdente ufficiale è del Pd. E del suo segretario, che da settimane ormai è sotto accusa, in maniera più o meno dichiarata. Per aver inseguito Giuseppe Conte per un anno e mezzo fino a decidere di decretare finita l’alleanza nel momento stesso in cui cadeva il governo Draghi, per aver stretto un accordo con Carlo Calenda, solo per vederlo stracciare da quest’ultimo 3 giorni dopo. Per aver sbagliato la campagna elettorale. La lista delle accuse è destinata ad allungarsi nell’ennesima notte dei lunghi coltelli.

D’altra parte, dopo le ultime due Politiche si sono dimessi due segretari: Pier Luigi Bersani, per la “non vittoria” del 2013 fu affondato dai 101 che bruciarono Romano Prodi nell’urna quirinalizia; Matteo Renzi dovette lasciare dopo il 18% del 2018, non prima di aver impedito la formazione del governo giallorosso. Letta aveva iniziato la giornata andando a votare a Testaccio alle 10. Tranquillità ostentata. “Buon voto!”, dice, mentre posta anche una foto del momento in cui inserisce la scheda nell’urna elettorale. Nella notte della sconfitta aspetta che le forbici si riducano, prima di dichiarare la resa.

Ora è questione forse di ore. Il processo a Letta si è già aperto. Il segretario valuta solo quando lasciare. Negli scorsi giorni si parlava di “svolgimento del congresso ordinato” a marzo, con Letta ancora formalmente in carica. Ma il passo indietro diventa necessario per riaprire un’alleanza che ormai tre quarti del Pd auspica. Irene Tinagli è pronta per la reggenza. Stefano Bonaccini ai nastri di partenza per correre ai gazebo. E il triumvirato dei capi corrente (Franceschini, Orlando, Guerini) è pronto a dividersi. Il ministro della Difesa ha già deciso che gli conviene appoggiare il presidente della Regione Emilia Romagna, piuttosto che subirlo. Mentre il ministro del Lavoro potrebbe vedersi costretto ad accettare che per la sinistra corra Elly Schlein. Anche lei prontissima.