La caduta di Draghi? Il “trionfo della democrazia”, dice il New York Times

28 Luglio 2022

Stavolta non si possono scomodare gli amici di Putin o i think tank della sinistra. L’editoriale del New York Times che saluta le dimissioni di Mario Draghi come “un trionfo della democrazia” è redatto da uno studioso conservatore del Massachusetts, Christopher Caldwell, collaboratore del quotidiano newyorchese, del Financial Times e di organi dei vecchi neocons come Weekly Standard. L’affermazione è semplice e diretta: Draghi è “stato insediato per rompere un’impasse politica all’inizio del 2021 su richiesta del presidente Sergio Mattarella” e nessuno ha mai votato per lui. “Per quanto onorevole e capace possa essere il signor Draghi, le sue dimissioni sono un trionfo della democrazia, almeno per come è stata tradizionalmente intesa la parola democrazia”.

Caldwell mette in evidenza un aspetto molto plateale della presidenza Draghi, il suo vero punto nevralgico, ma volutamente taciuto o rimosso e cioè “che i suoi governi servono due padroni: l’elettorato e i mercati finanziari globali. Forse questo è vero per tutti i Paesi dell’economia globale. Ma non è così che dovrebbe funzionare la democrazia” aggiunge il professore statunitense.

L’Italia, viene ricordato, è un sorvegliato speciale in Europa, appartenente a una moneta unica che costituisce un vincolo esterno ed estremo e proprio per questo, infatti, “più volte negli ultimi decenni la politica ordinaria è stata sospesa e governi “tecnici” come quello di Draghi sono stati chiamati a istituire misure di emergenza. Ciò significa che il governo italiano ascolta meno i cittadini anche se li invita a fare grandi sacrifici e adeguamenti”. Se Draghi, insomma, è il simbolo di un commissariamento esterno non ci si può meravigliare o bollare come filo-russi coloro che si rallegrano del fatto che quel filo doppio venga spezzato e si possa ristabilire una dialettica politica.

L’editorialista ricorda poi la specificità italiana caratterizzata dallo choc “populista” che viene paragonato ai due sconvolgimenti del decennio, la Brexit inglese e l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Ricorda anche la natura dei due governi Conte, sottolineando la “popolarità” dell’ex presidente del Consiglio scalzato da Matteo Renzi anche perché “né l’Unione europea né l’establishment romano si fidavano di lui per spendere tutti quei soldi” intesi come i soldi del Pnrr. Meglio Mario Draghi, che aveva “la credibilità per calmare i mercati”. Chi ricorda l’insistenza del leader di Italia Viva sulla gestione del Recovery fund ritroverà la verità di questa ricostruzione.

“Ma in cosa consiste la credibilità di Draghi? In una democrazia, la credibilità deriva da un mandato popolare. In un ‘governo tecnico’, la credibilità deriva dai collegamenti con banchieri, autorità di regolamentazione e altri addetti ai lavori”. E quindi con un governo tecnico come quello appena caduto potrebbe non essere chiaro se è la democrazia che sta “sollecitando l’aiuto delle istituzioni finanziarie o se invece sono queste ultime a mettere “la democrazia in un angolo”.

La crisi sembra più chiara vista dall’estero. “Il piano di soccorso Covid dell’Unione europea aveva lo scopo di spingere l’Italia verso le riforme del libero mercato” e “saranno necessarie dozzine di riforme prima che l’Unione europea distribuisca il resto”. Ma queste riforme “sono diventate odiose per molti elettori” come nel caso degli stabilimenti balneari o dei tassisti.

Date le circostanze, conclude il Nyt, “non c’è nulla di ‘populista’ o amante di Putin o di irragionevole nel preoccuparsi delle conseguenze per la democrazia. Lo scrive il più autorevole quotidiano Usa, ancora una volta, non un esaltato supporter della Russia. Qualcuno avverta Gianni Riotta.

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