Con o senza panino, il Tg1 è il megafono di Draghi

25 Marzo 2022

Dalle colonne di questo giornale abbiamo invocato ripetutamente la fine dell’indecente carosello dei figuranti che dichiarano a giornalisti che non fanno domande ma reggono microfoni (il famigerato “panino”): uno spettacolo indecoroso prima di tutto per questi ultimi e di nessuna utilità per i cittadini che sentono un rosario polifonico di frasi a memoria che del pluralismo non ha nulla, nemmeno la varietà argomentativa.

È una eredità, certo, che viene da lontano, dai rapporti storicamente malati tra tv e politica, ma che negli ultimi lustri ha dato i davvero peggiori frutti di sé. E che, bisogna ammetterlo, purtroppo ha anche a che fare, come scrisse tempo fa lo studioso Paolo Mancini su Problemi dell’informazione, con una etica professionale piuttosto ‘zoppicante’.

Ebbene l’indigeribile ‘pastone’ quotidiano è scodellato ancora a piene razioni dal Tg2, con più sobrietà dal Tg3, persiste sui tavoli di Mediaset, mentre, questa la novità, sembrerebbe scomparso (o quasi) dal menu del Tg1 con l’avvento della nuova direzione.

Il compiacimento per il parziale miracolo, però – una missione che sembrava oramai impossibile dopo il tentativo di Lerner nel lontano luglio 2000 – è durato qualche settimana, fino a quando le tabelle sul pluralismo in tv dell’Agcom non hanno raffreddato i nostri, pur cauti, entusiasmi.

Queste infatti ci dicono che la cura cui Monica Maggioni ha sottoposto il suo telegiornale, sottraendo i microfoni all’insulso teatrino dei figuranti, presenta un grave effetto collaterale, di quelli che alla fine ammazzano il paziente (leggi: pluralismo): l’aumento abnorme dello spazio per il premier.

Un tempo di parola che sul Tg1 trova pochi paragoni nel passato, almeno nell’era post berlusconiana: era successo con il Conte-2 in marzo-aprile e a novembre 2020, con Renzi a marzo e a ottobre del 2014, con Monti a gennaio e ad aprile 2012.

Il fatto in sé non è dunque un inedito assoluto, ma c’è tra gli esempi citati una differenza non lieve: e cioè che questa volta la sovraesposizione del capo del governo è abbinata alla drastica riduzione delle voci degli altri soggetti politici. La risultante è uno sbilanciamento inedito dei tempi di parola sul presidente del Consiglio.

Uno squilibrio puntualmente registrato dalle percentuali che per esempio a febbraio assegnano al premier oltre il 30% dello spazio del Tg1, terza performance degli ultimi 10 anni, seconda solo al Conte dei momenti più drammatici della pandemia (senza che però questa volta nessuno alzi la voce contro il ‘regime’).

Qualcuno a questo punto potrebbe eccepire obiettando che in febbraio è scoppiata la guerra: ma, primo: il conflitto è scoppiato il 24 febbraio; secondo: la guerra c’è anche per gli altri, però sul Tg2 e sul Tg3 l’esposizione del premier è di parecchio più contenuta. Il confronto lo conferma: se sul Tg2 parla per quasi 20 minuti e sul Tg3 per meno di 14, sul Tg1 Draghi parla per 52 minuti, un tempo superiore di 10/15 anche 20 volte quello degli altri leader politici, eccetto il ministro degli Esteri Di Maio che gode di 12 minuti di parola.

Per il Tg1 una certa simpatia filogovernativa non è una novità, ma gli eccessi di empatia come quelli del 31 dicembre o del 12 febbraio scorso (l’anniversario della nascita del governo celebrato con toni da cinegiornale) fanno male all’informazione alla stessa maniera del falso pluralismo delle dichiarazioni senza notizia e senza argomento.

Ugualmente senza notizia e senza argomento, per giunta, sono alcune delle occasioni in cui Draghi parla dagli schermi dell’adorante Tg1, eventi non proprio tali cui forse occorrerebbe restituire la giusta valenza informativa.

Insomma la sacrosanta battaglia contro l’orrido ‘pastone’ non può vedere in conclusione, quasi beffarda eterogenesi dei fini, uno spettacolo per voce sola. Quella del premier.

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