Il dossier

Ucraina, i missili entrano solo con i contractor

I “mercenari” - Ufficialmente gli accordi prevedono un ponte areo alla frontiera, per poi procedere con un convoglio terrestre, giacché aereo sarebbe militarmente esposto. La Nato potrà certo vigilare, ma non arriverà mai in territorio ucraino per fare la consegna: dovrà rivolgersi a “professionisti”

3 Marzo 2022

Missili, mortai, bombe, mitragliatrici, equipaggiamenti: l’Italia è pronta a fare la propria parte per difendere l’Ucraina. Rifornimenti per quella che, a detta di diversi esperti di tattiche militari, non sembra ancora una “guerra”, almeno per la forza offensiva dispiegata e il numero delle vittime di cui si ha notizia. Ma la scelta dell’Europa e della Nato di armare l’Ucraina, senza scendere direttamente in campo, pone le condizioni perché sia comunque una “guerra sporca”, anche sul fronte occidentale, quello che da sette giorni si stringe attorno ai valori più alti della democrazia. Nella quale si riaffaccia, però, l’ombra dei contractor.

Sul terreno ucraino non ci sono solo i temi del soverchiante squilibrio delle forze in campo, dell’uso di armi non convenzionali. C’è anche quello di “armare la guerra” senza sporcarsi le mani, senza lasciare l’impronta sul campo. Tema per gli alti comandi, e non solo, è anche come farle arrivare a destinazione, possibilmente integre, fino alle linee impegnate sui vari fronti. Ufficialmente gli accordi, anche quelli presi a Roma, prevedono una consegna diretta cui provvederà la Nato per la parte logistica. Un ponte areo alla frontiera, per poi procedere con un convoglio terrestre, giacché aereo sarebbe militarmente esposto. Il punto di contatto “lecito”, spiegano fonti qualificate, potrebbe essere ovunque, basta guardare la carta militare: le frontiere d’Europa non sono sigillate ma “porose” e i punti in cui immettere colonne di armi e di aiuti sono dappertutto, dall’Ungheria, dalla Romania, fino al Nord. Il problema è proprio come scortarle in un viaggio di mille chilometri fino a Kiev, che in tempo di pace impiegherebbe un giorno per arrivare a Charkiv. Il tutto sotto l’occhio vigile dei satelliti, dell’aeronautica e delle colonne di Putin. La questione non è banale, da ché l’anshluss pianificato dal Cremlino si è infranto, per la resistenza opposta dagli ucraini e le difficoltà logistiche incontrate sul campo: operazioni di supporto come queste, non possono che procedere lungo un “corridoio” organizzato, protetto, affidabile.

La Nato potrà certo vigilare, ma non entrerà mai in Ucraina per fare la consegna. L’esercito di Zelensky difficilmente potrà arrivarci e attraversare il Paese. Potrebbero entrare in campo allora i famosi contractor, le compagnie paramilitari private che non hanno insegne, fungono da avamposti degli eserciti e portando le armi quando legalmente non si può. In Afghanistan le portavano le ambulanze. Del resto sono già lì. Appena la situazione si è fatta incandescente aziende private e governi occidentali hanno ingaggiato società specializzate per garantire ai propri dipendenti un “lasciapassare”, quando salire su un’auto o un aereo era già rischioso e i canali delle ambasciate non promettevano certezze. L’inglese Stam, notizia di ieri, si è adoperata per questo e un ex paracadutista italiano intervistato da Today ha raccontato di essere stato ingaggiato da una società che lavora per un governo straniero per portare al sicuro quaranta persone. Ma qui non si tratta di evacuare civili, si tratta di portare armi alla guerra che nessuno dice di volere.

Il costo dell’aiuto rischia di essere ben più alto di quello che viene dichiarato. I “mediatori” si fanno pagare il 30% del valore di carico per il loro “servizio.” “A volte anche il 70%, se diventano esosi e la situazione lo consente”, conferma Fabio Mini, un tempo capo di Stato Maggiore del Comando Nato per il Sud Europa, ora in pensione. Anche lui ritiene molto delicata la fase della consegna delle armi, la cui modalità – per ovvie ragioni – non si conosce. Da una parte potrebbero finire nelle mani del nemico, dall’altra diventare un “pozzo senza fondo”, se il conflitto continuasse con questo grado di intensità.

L’ex generale non ha dubbi sul fatto che la guerra vera debba ancora cominciare. “Abbiamo visto quel convoglio di 65 chilometri ma è fermo. Abbiamo assistito ad azioni mirate nelle città, sui ripetitori. Sono poi entrati in azione i parà, ma quelli agiscono per obiettivi specifici, sono incursori tattici, non è ancora uno scenario di guerra, al netto delle sofferenze che sta provocando”. Da giorni si discute anche del bollettino di caduti. È dell’ordine delle centinaia, quando nel ’91 in Iraq partirono 10 mila missioni di bombardamento in otto ore, con decine di miglia di morti. “È evidente che Putin – rimarca Mini – poteva radere al suolo l’Ucraina senza metterci piede, ma l’obiettivo era diverso: era rovesciare il governo di Zelensky e crearne un altro per fermare le adesioni alla Nato”. Non è andata così.

La profferta di armi pone anche un altro problema. Al di là degli annunci che la enfatizzano, nessuno oggi può dire quante ne serviranno. Non solo perché non si vede una fine, ma perché c’è un’altra variabile sconosciuta ed è la reale consistenza delle forze in campo. L’esercito regolare ucraino si è detto possa contare anche su 150 mila uomini, al netto dei civili, ma i militari sanno che quelli sono numeri solo ipotetici, perché il rapporto tra chi combatte e chi lo sostiene è di 1 a 7. Per un soldato che spara, ce ne sono sette che portano munizioni, fanno rifornimenti, si occupano della logistica. Così, 200 mila soldati sulla carta diventano 30 mila. Ogni numero rischia di essere insufficiente e al tempo stesso eccessivo: una volta finita la guerra, dove andranno a finire quelle armi? È accettabile poi che passino dai governi in mani private?

Non sfugge agli osservatori di scenari bellici il risvolto della drammatiche immagini dei profughi: perché l’esercito russo non aggredisce i convogli? E la risposta “tattica” è che Putin ha tutto l’interesse a non colpirli, non solo o tanto per evitare ulteriori accuse di incendiario del mondo senz’anima, ma anche e soprattutto perché, così facendo, le città sotto assedio si svuotano; che è poi la condizione necessaria perché le forze appostate possano entrare e colpire i propri obiettivi. Anche perché lo stesso Putin, è convinzione diffusa, non saprebbe poi come gestire, concretamente (ma anche a livello di immagine internazionale), una devastazione che procedesse dall’alto. Pur avendo dispiegato in campo forze in grado di radere al suolo mezza Ucraina, non lo fa.

Le analisi portano alcuni esperti a confidare, o temere, più gli effetti destabilizzanti dell’altra guerra, quella che non si fa laggiù, sul campo, ma che stiamo facendo solo noi: a parte l’immaginabile scontento degli oligarchi russi, quanto sono efficaci le sanzioni, per mettere in ginocchio l’economia e la finanza di Mosca? I negoziati a salve, mentre cadono le bombe, dimostrano che l’effetto dell’una e dell’altra guerra non sono chiari neppure a chi li fa. Ma che in ogni caso il prezzo sarà alto. E quello dei contractor sembrerà accettabile.

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