L’intervista, Mohamedou Ould Slahi

Il Mauritano, 14 anni a Guantanamo: “Il giudice mi liberò ma Obama mi fece il dito medio”

Di Michela A.G. Iaccarino
29 Agosto 2021

Oggi perdono la guerra gli americani, trent’anni fa in Afghanistan la perdevano i sovietici. Le regole di ingaggio delle truppe straniere che combattono tra quei deserti non sono mai cambiate da allora: bisogna sempre ricordare che tra le montagne pashtun i nemici di ieri possono diventare alleati di domani. All’epoca, per combattere i russi, giovani musulmani arrivavano da ogni latitudine per addestrarsi con un movimento di mujahidin sostenuto dagli Usa: al-Qaeda. Per pochi mesi lo fa anche il ventenne mauritano Mohamedou Ould Slahi, che però nel 1992 torna a casa recidendo ogni legame con i miliziani, tranne che con suo zio, che gli telefona qualche anno dopo. Per farlo usa il satellitare di un uomo di cui pochi conoscevano il nome negli anni Novanta: Osama Bin Laden. Per questi due motivi, quando cadono le Torri Gemelle, Slahi viene prelevato dalla Cia e viene rinchiuso a Guantanamo, dove rimane 14 anni: da innocente. Adesso che il film The Mauritanian, di Kevin Macdonald, l’hanno visto milioni di persone, “tutti conoscono questa storia”, dice in quell’inglese dalla pesante cadenza americana che ha imparato sentendo parlare le guardie Usa fuori dalla sua cella.

Prelevato dalla Cia in Mauritania nel 2001, trasportato in una prigione in Giordania, trasferito a Bagram, ormai ex base Usa in Afghanistan: lei è arrivato a Guantanamo nel 2002.
Quando sono stato rapito dalla Cia ero da solo a casa con mia madre, l’ho vista diventare sempre più piccola nello specchio retrovisore finché non è scomparsa, per sempre. È morta mentre ero in detenzione. Nel gergo militare Usa si chiama “extraordinary rendition”, un eufemismo per rapimento. Mi hanno violentato tre volte. Per settanta giorni mi hanno impedito di dormire. Mi picchiavano ogni giorno finché non mi hanno rotto le costole. Hanno provato ad affogarmi col waterboarding, poi in mare. Quello che dico è tutto scritto nei documenti della Cia. Sono stato il primo detenuto di Guantanamo a cui volevano dare la pena di morte.

Per 12 anni il dipartimento di Giustizia, la Cia o Washington non hanno mai formalizzato accuse ufficiali contro di lei.
Quando chiedevo la formalizzazione delle mie accuse, rispondevano: devi essere tu a dirci che cosa hai fatto. Nessuna delle guardie che mi ha torturato è stata processata. Ma non gli auguro niente di male, nemmeno all’uomo a capo dei torturatori: Richard Zuley, che adesso è anziano. Senza la supremazia della legge we are screwed, siamo tutti fottuti. Dopo le Torri gemelle, gli americani hanno detto: la legge vale per noi, per il resto del mondo no.

Lei un giorno firma una confessione per gli attacchi di al-Qaeda avvenuti su suolo Usa.
Mi hanno detto che stavano andando a rapire mia madre. Vedevo le loro labbra muoversi, sentivo solo un ronzio, non c’ero più con la testa.

Poi è arrivata Nancy Hollander, l’avvocatessa che oggi difende la whistleblower Chelsea Manning.
Nel 2005, il giorno in cui l’ho conosciuta mi hanno dato una divisa nuova e mi hanno fatto fare la doccia. Quando l’ho vista l’ho abbracciata e ho pensato che avrei vinto, come in una puntata di Law and Order. Solo nel 2009 un giudice, molto conservatore, ha esaminato il mio caso e ha deciso di liberarmi. Avevo vinto, ma alla sua decisione fece appello l’amministrazione Obama, che mi fece un enorme dito medio. Sono rimasto a Guantanamo per altri sette anni. Sono uscito nel 2016.

Oggi le celle nella baia cubana sono ancora lì.
Nessun presidente americano rischierà il suo capitale politico per chiudere Guantanamo: dentro soffrono arabi, africani, mediorientali. Chiuderla non ti fa eleggere alla Casa Bianca. Ma prima degli arabi e africani che sono lì dentro, la vera vittima è la democrazia.

Della tua guardia Steve Wood hai detto: “Siamo diventati amici quando contava di più, nel momento più buio”. Lui ha detto di te: “Mi ripetevano che era un terrorista di al-Qaeda, ma era impossibile non volergli bene”. È venuto a trovarti in Mauritania, si è convertito all’Islam.
In cella ero sempre spaventato. Poi è arrivato questo ragazzone che ha detto “eeeehi, vuoi un caffè?”, che a me non piace. Accettai, mi insegnò a giocare a carte. Siamo diventati amici sparlando delle altre guardie.

In questa intervista ha sorriso tutto il tempo sullo schermo e citato continuamente il Grande Lebowsky “dove è l’uomo sbagliato a pagare”. Come si fa dopo 12 anni da innocente a Guantanamo a essere così felice?
Nella vita devi decidere quali sono le priorità e io l’ho fatto nel 2002, quando ero a Bagram e mi dissero che sarei tornato a casa. Per un momento ci ho creduto. Non sapevo quanti mesi erano passati, se fuori era giorno o notte. Mi bendarono, mi tagliarono i vestiti con le forbici, ero completamente nudo e cieco. Mi stavano portando a Guantanamo Bay. In quel momento ho cominciato a rimpiangere non di non avere tanti soldi o una bella casa, ma che avevo detto cose cattive a mia madre. Mi promisi che sarei stato da allora in poi un uomo gentile. In arabo le parole “libero” e “perdono” hanno la stessa radice. Io voglio vivere da uomo libero.

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