L'intervista

Anna Foglietta: “Le quote rosa sono un palliativo necessario”

L'attrice sabato 31 luglio porterà sul palco di Verbania “La bimba col megafono (Istruzioni per farsi ascoltare)”, scritto con Marco Bonini. Uno spettacolo confessione, un monologo tragicomico recitato e cantato. E A Parole Nostre spiega: “È una fase in cui mostriamo molto i muscoli, ed è necessario: per troppo tempo abbiamo ceduto terreno, però è inevitabile trovare un equilibrio. Che non vuol dire essere docili, morbide, ma essere femmine”

28 Luglio 2021

Risponde dal set di Trafficante di virus, per la regia di Costanza Quatriglio. La sceneggiatura, di Francesca Archibugi e la stessa Quatriglio, adatta il libro Io, trafficante di virus di Ilaria Capua: a incarnarla è Anna Foglietta. Reduce dalla serie tv Alfredino, in cui ha interpretato Franca Rampi, sabato 31 luglio porterà sul palco di Verbania La bimba col megafono (Istruzioni per farsi ascoltare), scritto con Marco Bonini. Uno spettacolo confessione, un monologo tragicomico recitato e cantato: protagonista assoluta una donna, Anna.

Foglietta, che cos’è La bimba col megafono?

È il risultato di una lunga elaborazione personale. Sono figlia di un nucleo familiare semplice e complesso, in cui trovavano spazio tutte le componenti politiche eccetto quelle che mi rappresentavano. Dunque, racconto l’emancipazione di una donna rispetto all’ideologia, fino a parlare di felicità: il valore di una donna a prescindere dalla sua collocazione. Non madre, non figlia, non moglie: solo donna.

La disamina?

A volte divertente, altre drammatica: il raggiungimento della propria felicità, passando dalle zavorre che ci mettiamo addosso, o che ci mette addosso la cultura.

La cultura?

Si parla sempre più di cultura, anziché di arte.

Ed è un problema?

Dietro la cultura c’è un meccanismo più economico che artistico, ci sono persone chiamate, cooptate. Ma la cultura senza arte non ha senso: servirebbe più sperimentazione, servirebbe appassionarsi al fatto artistico. Diciamolo, spesso il fatto culturale è una rottura di scatole, viceversa, l’arte è sempre libera: è un graffio.

Dove nasce questa involuzione culturale?

Ho quarantadue anni, sono nata alla fine degli Anni Settanta: direi poco prima. Allorché la sinistra si impadronisce del valore culturale degli eventi, che allora avevano una validità anche politica. Poi man mano, e non per colpa del partito, quella validità è scemata, ma la cultura è divenuta retaggio di sinistra: in realtà, così non è, dovrebbe essere priva di colore e bandiera. Con la perdita di una forte identità di sinistra è venuta meno la forte valenza politica della cultura. Il berlusconismo ha fatto il resto.

Torniamo a La bimba col megafono.

Lo spettacolo è il tentativo di questa donna di trovare posto in una società che la rappresenta, pura e trasparente come è, sempre meno.

La complessità odierna di essere donna, lavoratrice, emancipata?

Oggi è una missione faticosissima, in termini fisici e mentali. Non bisogna mai mollare un passo, sempre tenere botta, e come fare? Non mascolinizzarsi, non fare esercizio muscolare, un errore che sovente si commette. È una fase storica in cui le donne mostrano molto i muscoli, ed è necessario: per troppo tempo abbiamo ceduto terreno, però è inevitabile trovare un equilibrio, uno spazio nostro. Che non vuol dire essere docili, morbide, ma essere femmine. E i maschi idem, nel loro ruolo.

Che cosa sta accadendo?

Ruoli millenari improvvisamente vengono meno: c’è confusione, in termini familiari. Dimostrare il ribaltamento dei ruoli da parte delle donne, per me non ha un’accezione positiva: dovrebbero mostrare, non dimostrare forza. Il depauperamento del maschio crea incomunicabilità: in questa fase sarà anche necessario, ma bisogna a breve ritrovare l’armonia col maschile.

E le quote rosa?

Sarebbe bello se l’avessimo realizzate dieci anni fa, viceversa, la componente femminile nei governi è sempre stata altalenante e parcellizzata: se non si è rappresentate politicamente, non lo si è nemmeno socialmente. Lo diceva Nilde Iotti in tempi non sospetti. Le quote rosa, dunque, sono un palliativo necessario di ciò che dovrebbe essere naturale: teniamocele, ma sono un contentino squallido.

Al cinema come siamo messi?

Fortunatamente sono in una fase di grazia, in cui mi vengono offerti ruoli di donne che non hanno legami di dipendenza rispetto al maschile. Ma nel panorama generale assisto, assistiamo a un buco nero: a parte due o tre colleghe, le donne tra i cinquanta e i cinquantacinque anni non trovano rappresentazione, se non in rapporto a un personaggio maschile. Come se la donna in menopausa non essendo più creatrice non fosse più utile. Al contrario, in quella seconda fase la donna è emancipata, realizzata, pacificata, quindi più interessante: perché questo buco nero cinematografico, perché non raccontare la loro verità esistenziale? Invito i lettori a rifletterci: le donne anche dopo i cinquanta sono straordinarie.

Potrebbe scrivere lei, di queste donne.

Lo faccio, la scrittura è mia compagna da anni, e prima o poi di tante cose scritte qualcuna prenderà la forma di un film, me lo sento. Ho la malattia dell’empatia, le antenne accese sempre e, comunque, ventisette orecchie e cinquantotto occhi: arrivano storie pazzesche, di straordinaria normalità. Ci sono da raccontare miliardi di rivoluzioni sotto i nostri occhi: urge renderle palesi, manifeste.

Di quale donna sceneggerebbe ora?

Mia madre, l’ho riscoperta. La sua grande forza, una grande tempesta: l’ho rivista nella sua bellezza, come l’eroina che intendevo da piccola. Ho levato l’aspetto edulcorato che diamo ai nostri genitori, e l’ho restituita alla sua essenza: gajarda.

@fpontiggia1

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