L’intervista. Nino Di Matteo

Riforma Cartabia, Di Matteo: “Norme copiate da B. Altro che velocizzare, si faranno più appelli”

27 Luglio 2021

La riforma della Giustizia di Marta Cartabia? “Rischia di segnare un ulteriore incremento di prestigio per le organizzazioni mafiose”. Il motivo? “I boss si dimostrano sempre capaci di celebrare i loro processi ed emettere le loro sentenze, mentre lo Stato dimostrerebbe la sua impotenza”. Nino Di Matteo è preoccupato. Per il consigliere del Csm la norma in discussione in commissione a Montecitorio “ricorda per analogie evidenti la cosiddetta riforma del processo breve dell’ultimo governo Berlusconi, che rappresentava un pericolo per la tenuta stessa del sistema democratico”.

Quel pericolo è ancora attuale?

Le somiglianze tra le due riforme sono evidenti e il mio giudizio è fortemente negativo e preoccupato. Quando parlo di analogie mi riferisco ovviamente al meccanismo dell’improcedibilità: farà andare in fumo molti processi e sarà equivalente a una denegata giustizia. Non solo per le vittime, ma pure per gli imputati che magari sono innocenti e hanno diritto a una sentenza di merito. E poi mi faccia dire un’altra cosa.

Dica.

A mio avviso il meccanismo dell’improcedibilità costituisce non solo un grave arretramento nel funzionamento del sistema di giustizia in generale, ma rischia di rappresentare un ulteriore arretramento nella fiducia che i cittadini devono nutrire nella giustizia. Quando qualsiasi processo andrà in fumo senza una pronuncia nel merito, è destinato ad aumentare il senso di sfiducia dei cittadini nei confronti dello Stato. Parallelamente ci sarà un incremento del prestigio criminale di coloro che hanno commesso reati, ma resteranno impuniti.

Pochi giorni fa la Guardasigilli ha detto che l’improcedibilità non si applicherà a reati di mafia e terrorismo, perché sono puniti spesso con l’ergastolo.

L’equazione non trova sostegno nella normativa in vigore. Moltissimi processi di mafia riguardano fatti gravissimi che non sono punibili con la pena dell’ergastolo: basta ricordare quelli relativi alla gestione delle estorsioni, al traffico di stupefacenti, ai tanti che hanno riguardato la contestazione solo del reato di associazione mafiosa o del concorso esterno per politici e uomini delle istituzioni.

Per trovare un accordo con i 5Stelle il governo pare sia disposto a escludere i reati di mafia dal meccanismo dell’improcedibilità: questa modifica basta?

Segnerebbe un primo passo perché almeno si salverebbero molti processi di mafia che così sono destinati ad andare materialmente in fumo. Il mio giudizio sull’intero impianto della riforma, però, rimane comunque di preoccupazione.

Perché?

Perché l’improcedibilità continuerebbe a riguardare molti altri processi per reati gravi, tra i quali quelli contro la Pubblica amministrazione, tipici della criminalità dei colletti bianchi. Quelli continuerebbero a rischiare di andare in fumo.

Dentro la riforma c’è anche un’altra novità: la possibilità per il Parlamento di indicare i criteri generali da seguire per selezionare la priorità delle notizie di reato.

L’approvazione di questa parte della legge comincerebbe ad aprire uno squarcio, limitato ma facilmente allargabile, alla possibilità che poi sia la politica a dettare l’agenda alle procure. Questo, oltre a contrastare con i principi fondamentali della Carta, segnerebbe un passo verso il sostanziale assoggettamento delle procure al potere politico.

Dicono che questa riforma abbia come obiettivo quello di velocizzare i processi: è quello che succederà?

No, anzi se approvata così come è stata disegnata la riforma produrrà un’ulteriore moltiplicazione degli appelli.

Perché?

È facile prevedere che pure il reo confesso ricorrerà in Appello e Cassazione nella speranza che il decorso del tempo faccia venire meno il processo. La ragionevole durata dei processi è interesse di tutti, ma ci sarebbero altre le soluzioni compatibili con il mantenimento dello stato di diritto.

Ci faccia solo un esempio.

Serve una seria riforma dell’appello che scoraggi le impugnazioni strumentali, con l’abolizione del divieto di reformatio in peius. Oggi l’imputato condannato fa comunque appello perché il suo ricorso, anche quando infondato, non lo espone mai al rischio di una condanna più severa.

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