Lavoro

Lavoro, in 13 anni ben 800mila precari in più: +36%. Ma l’occupazione è aumentata solo dell’1,4%

Rapporto Inapp - Dal 2008 la flessibilità è cresciuta del 36,3%, l’occupazione solo dell’1,4%

17 Luglio 2021

L’esplosione delle forme di lavoro precario vista in Italia, soprattutto in questo decennio, non si è tradotta in grandi aumenti dei dati occupazionali. Nonostante la produttività sia salita negli ultimi 15 anni, sebbene molto lentamente, nello stesso periodo i salari orari sono gradualmente diminuiti. Nel rapporto dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp), presentato ieri dal presidente Sebastiano Fadda, c’è l’ennesima smentita – dati alla mano – degli assiomi politici con i quali, dalla fine della crisi del 2008 in poi, si è tentato di dare impulso alla crescita economica.

Il meccanismo per cui più flessibilità nel mercato del lavoro a lungo andare avrebbe redistribuito il benessere non si è verificato; semmai è successo il contrario. Lo si nota, per esempio, osservando gli effetti della liberalizzazione dei contratti a tempo determinato: tra il 2008 e il 2019 abbiamo avuto un incremento del 36,3%, pari a 800mila contratti precari, ma l’occupazione è aumentata solo dell’1,4%. La quota di precariato sul totale dell’occupazione è passata dal 13,2% al 16,9%. E ora – fa notare l’Inapp – sta succedendo lo stesso: la timida ripresa delle assunzioni è trainata dai rapporti a termine, proprio come al termine della precedente recessione. L’altro aspetto che accomuna la recessione scatenata dal Covid con quella del 2008 è la categoria più colpita: i giovani.

L’andamento dei salari, poi, è contrario a quello della produttività: mentre quest’ultima è in ogni modo aumentata – molto lentamente, a causa dello scarso livello tecnologico delle nostre imprese – le retribuzioni proseguono la discesa. Tra i motivi, spiega l’istituto, anche “la perdita di potere contrattuale da parte dei sindacati”. “Le politiche di cosiddetta flessibilizzazione del mercato del lavoro introdotte dalla fine degli anni 90”, si legge nello studio, hanno incoraggiato “strategie competitive basate esclusivamente sul contenimento dei costi unitari del lavoro” e questo ha finito per ridurre “la quota di valore aggiunto distribuito al fattore lavoro”.

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