Marco Travaglio

Direttore del
Fatto Quotidiano

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La Guardagingilli

16 Luglio 2021

L’equivoco del bravo banchiere “competente” e “migliore” per definizione in tutti i rami dello scibile umano sta crollando dinanzi alle scempiaggini che Draghi sforna a piene mani appena esce dal perimetro bancario. “Erdogan è un dittatore di cui si ha bisogno”. “Sì, è un condono fiscale, ma molto limitato e permette una lotta all’evasione più efficiente”. “Il cashback favorisce i più ricchi”. “Con quella Coppa gli Azzurri possono fare ciò che vogliono” (cioè violare il decreto Draghi contro gli assembramenti senza mascherine). “La responsabilità collettiva (nei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ndr) è di un sistema che va riformato. La riforma Cartabia è un primo passo che appoggio con convinzione”. C’è da sperare che i 52 agenti penitenziari arrestati per aver massacrato di botte i detenuti non leggano l’ultima, altrimenti hanno un alibi di ferro certificato dal premier: non è stata colpa loro, ma di un fantomatico “sistema”; e se, per evitare pestaggi futuri, occorre una riforma, vuol dire che i pestaggi passati e presenti sono previsti dalla legge vigente. In realtà sono da sempre vietati e attengono alla “responsabilità personale” di chi li commette. E la riforma Cartabia del processo (emendamenti peggiorativi alla Bonafede) non c’entra nulla con i pestaggi. Se cercano pretesti per giustificare il nuovo Salvaladri, se ne inventino un altro: questo non attacca.

A meno che non si riferiscano all’altra schiforma minacciata dalla ministra tramite Repubblica: la modifica della legge Gozzini, cioè dell’ordinamento penitenziario del 1975 che ha reso la certezza della pena una burletta e la giustizia uno spaventapasseri: una roba che fa paura da lontano e fa ridere da vicino. Ma questo alla Cartabia non basta ancora: vuole completare il colabrodo con la definitiva decarcerazione. E in effetti, svuotando le carceri, il problema dei pestaggi sarebbe risolto: eliminando non i picchiatori, ma i detenuti da picchiare. L’ideona si basa su un refrain ripetuto a ogni piè sospinto dall’ex cheerleader di Formigoni: “Non può essere il carcere l’unica pena per chi commette un reato”. Che, detto in Italia, è meglio di una barzelletta. Il suo amico Formigoni, condannato a 5 anni e 10 mesi per corruzione e altri delitti, è uscito dopo 5 mesi. Il suo alleato B., condannato a 4 anni per una mega-frode fiscale, se l’è cavata con 10 mesi di visite trisettimanali a un ospizio. Verdini, amico dei suoi alleati, condannato a 6 anni e 6 mesi per bancarotta fraudolenta, è uscito dopo meno di 3 mesi con la scusa del Covid (gli altri 1200 ospiti di Rebibbia invece no) e i giudici hanno appena confermato che può restarsene a casa perché “ha accettato la pena”.

Come se chi accetta la pena meritasse un premio. “La condanno all’ergastolo, che fa: accetta?”. “Ma sì”. “Perfetto, fuori”. Oggi, su circa 90 mila detenuti, 30 mila (un terzo) sono fuori in pena alternativa perché condannati a meno di 4 anni (anche per reati gravissimi: il tetto sale a 7 anni con gli sconti di un terzo per i riti alternativi). Fanno eccezione i soggetti mal difesi e gli stranieri senza fissa dimora: cioè i poveracci. E in una simile farsa che ci viene a raccontare la Cartabia? Che “il carcere non può essere l’unica risposta al reato”. Come se oggi ogni condannato finisse in carcere, mentre tutti sanno che non ci finisce nemmeno un decimo. Ora tenetevi forte e sentite cos’ha in serbo la Guardagingilli. Per le condanne fino a 4 anni (cioè a 7 col patteggiamento o col rito abbreviato, sempreché qualcuno ancora li chieda, con la prospettiva dell’improcedibilità in appello), il carcere resta finto: domiciliari o servizi sociali o semilibertà. Però oggi almeno i condannati sopra i 4 anni vanno in galera, salvo chiamarsi Formigoni e Verdini. Niente paura, Nostra Signora dell’Impunità ha pensato anche a loro con la “messa alla prova”, che sospende il processo e poi lo annulla se l’imputato chiede scusa, ripara il danno e chiede scusa alla vittima: non più per i reati puniti fino a 4 anni, ma addirittura fino a 6 (inclusi quelli sessuali, fiscali, tangentizi, edilizi, ambientali, gli omicidi colposi e naturalmente le violenze delle forze dell’ordine tipo S. M. Capua Vetere). Non solo: per questi reati si potranno pure evitare la confisca dei beni e il licenziamento, finora esclusi dal patteggiamento.

Una pacchia senza fine per i criminali e una beffa alle vittime, alla collettività e a quei fessi di cittadini che si ostinano a rispettare le leggi. Molte di queste facezie erano già nella “riforma” Orlando, quintessenza dell’impunitarismo “de sinistra” che contribuì alla débâcle elettorale del Pd nel 2018 e alla vittoria dei due partiti che si battevano per la certezza della pena: 5Stelle e Lega (poi convertita all’impunitarismo “de destra”). Infatti il governo gialloverde, con Bonafede ministro, smantellò la boiata. Ora, in barba alla volontà popolare, si ricomincia dando la mazzata finale a quel poco che resta dello Stato di diritto. Il tutto, barzelletta nella barzelletta, mentre si combatte sul ddl Zan per punire parole e violenze discriminatorie (rispettivamente) fino a 18 mesi e a 4 anni: altri processi nati morti o destinati a pene finte. L’ennesima macchina per tritare l’acqua. Alle prossime elezioni, chi avrà votato queste follie spiegherà agli elettori che è giusto mandare impunito uno stupratore perché è poco carino che il suo processo d’appello duri 2 anni e 1 giorno. Così gli elettori sapranno cosa fare.

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