Bolivia

Gli schiavi di Potosì a caccia di argento, tra veleni e “El Tio”

I minatori e il tesoro che ha fatto ricca l’Europa

Di Alessandro Di Battista
8 Luglio 2021

Il fine settimana decine di minatori, per lo più giovani, bevono litri di birra per le vie di Potosì. Così se ne va parte del loro salario da fame. C’è chi ritiene sia uno sperpero, ma una sbornia è un diritto umano per chi fa il loro lavoro. Pare che già gli inca fossero a conoscenza dei tesori custoditi dal Cerro Rico, la montagna che domina Potosì, una delle città più belle e tragiche dell’America latina, fondata nel 1545 con il nome di Villa Imperial di Carlo V. Proprio Carlo V era stato da poco eletto Imperatore del Sacro Romano Impero quando, secondo la leggenda, l’indio Huallpa, dopo aver inseguito sulla montagna un lama che era fuggito, costretto a passar la notte in alta quota, accese un fuoco per riscaldarsi. Il calore delle fiamme sciolse parte della terra dalla quale uscì un liquido brillante. Era argento. Gli spagnoli avevano trovato l’Eldorado a 4.100 metri di altezza. Per Carlo V fu la salvezza. D’altronde la Casa d’Asburgo si era indebitata per farlo eleggere Imperatore dei Romani. I sette elettori, infatti, vennero pagati per scegliere Carlo. Il voto di scambio è molto antico. I denari per comprare il loro voto arrivarono dai principali banchieri europei, soprattutto dai Fugger, potente famiglia tedesca dedita alla produzione tessile e alle attività finanziarie. Furono proprio i banchieri europei ad arricchirsi grazie alle viscere della terra boliviana. Scrive Eduardo Galeano ne Le vene aperte dell’America latina: “Gli spagnoli avevano la vacca, ma erano altri a bere il latte”. Si dice che con tutto l’argento estratto da Cerro Rico si sarebbe potuto costruire un ponte tra Madrid e il Nuovo mondo. “Vale un Potosì”, in effetti, è un’espressione che ancora si utilizza in Spagna. Migliaia di tonnellate d’argento provenienti dal Cerro Rico per secoli hanno invaso l’Europa. L’argento potosino si trova nei castelli nobiliari, nei palazzi vescovili, negli altari delle chiese, nelle case signorili, nei caveau di centinaia di banche e in Vaticano. L’argento potosino ha permesso lo sviluppo del Vecchio continente, il suo arricchimento, l’accumulazione originaria, per usare un’espressione marxista che, a sua volta, ha fatto sì che la Rivoluzione industriale avesse luogo prima in Inghilterra, poi in Francia, Olanda, Italia e non certo in Bolivia. La Bolivia, un Paese che – nonostante debba il suo nome al libertador Simón Bolívar – non si è mai liberato dalla povertà, ha arricchito un continente intero. Le centinaia di tunnel sotterranei che trafiggono il Cerro Rico hanno visto morire milioni di schiavi in quattrocento anni di storia. C’è chi ha calcolato che la bramosia degli Spagnoli e quella dei loro creditori, abbiano ucciso 8 milioni di persone. Se così fosse, quello potosino sarebbe uno dei più grandi genocidi della storia dell’umanità. A morire non furono solo i nativi. Quando gli Spagnoli si resero conto che l’argento era infinito e la manodopera indigena scarseggiava, iniziarono a prendere gli schiavi in un altro continente, uomini trattati come bestie, strappati dal tepore e dalle foreste di Mamma Africa e costretti a vivere per mesi, al gelo, dentro le miniere a oltre 4.000 metri di altezza, prima di tornare a vedere la luce del sole. Luce che in molti non videro più. Il commercio triangolare riguardò tre continenti, ma soltanto uno, quello europeo, ebbe vantaggi, gli altri persero la storica occasione di svilupparsi. Con l’argento di Potosì, oltre a pagare i debiti, la corona spagnola comprava merci a Londra, Manchester, Parigi, Francoforte e Venezia e con queste pagava i negrieri che stipavano nelle navi dirette in America carichi di carne da miniera. Il commercio triangolare non è terminato. “Tutto si trasforma”, sosteneva Lavoisier. Ancora oggi, nel 2021, Africa e parte dell’America latina assicurano al Primo mondo quelle materie prime che, a loro volta, garantiscono più guadagni a chi le trasforma e le consuma piuttosto che a chi le produce. E ciò nonostante siano i produttori coloro che rischiano la vita. Anche la schiavitù è stata abolita, ma di schiavi moderni ne è pieno il pianeta.

Nelle miniere di Potosì i minatori non lavorano più 12 ore al giorno come avveniva decenni fa e, perlomeno nelle miniere che ho visitato, non c’erano minorenni a scavare. Tuttavia il Cerro Rico continua a essere un inferno.

Ogni mattina i minatori comprano al mercato foglie di coca per affrontare fatica e altitudine, dinamite per rompere la roccia, sigarette senza filtro e alcool a buon mercato per omaggiare “El Tio”, il demonio, la divinità delle miniere. A lui chiedono salute, fortuna, una nuova vena d’argento da inseguire e polmoni resistenti. All’interno dei tunnel i minatori respirano di tutto. Arsenico, acetilene, diossido di silicio. In molti si ammalano di silicosi dopo pochi anni. Ma Potosì, una città che tra il XVI e il XVII secolo era una delle più abitate al mondo, oggi, a parte le miniere, offre ben poco. La pandemia ha ucciso il turismo e per questo, oltre che per l’aumento del prezzo dell’argento, di braccia scavatrici non ne mancano sugli altipiani boliviani. Ho visto minatori infilarsi in tunnel dal diametro di 60 cm e sparire nel ventre della terra. Ho visto ragazzi barcollare dalla fatica, con la guancia destra gonfia di foglie di coca e bicarbonato e con il viso ricoperto da polvere e fango. Ho visto donne al di fuori delle miniere spaccarsi la schiena nel dividere i pezzi di roccia pieni di “mineral” dalla caja, le pietre senza alcun valore. Ho visto dignità e disperazione, speranza e disillusione. Ho visto ingiustizia, povertà, miseria. Il tutto per soddisfare la fame d’argento internazionale e per garantire la sopravvivenza di una famiglia, spesso, costretta a piangere prematuramente la morte di chi porta i soldi a casa. I minatori hanno il sacrosanto diritto di alzare il gomito se questo gli consente di dimenticare l’inferno per un paio d’ore. È evidente che il reddito universale sia la battaglia del secolo, così come la controinformazione. È molto più comodo inginocchiarsi a favor di telecamera che prendere coscienza delle conseguenze del colonialismo o delle storture che continua a perpetrare il neo-colonialismo. C’è chi sostiene che la ricchezza europea sia dipesa dal libero mercato senza regole, dal trionfo del sistema liberista, da una “mano invisibile” segno della provvidenza. Non è così. Le mani che hanno arricchito il Vecchio continente e gli Stati Uniti e che continuano a farlo, sono molte, non una sola. E se sono invisibili è solo perché nelle miniere d’America oscurità e oscurantismo continuano a dominare.

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