Ilva, non solo veleni e morti: l’ultima beffa è il rischio sui risarcimenti

2 Giugno 2021

Miliardi di euro in sanzioni e provvisionali. Una montagna di denaro che, probabilmente, nessuno a Taranto vedrà mai. Nonostante le condanne inflitte dal Tribunale di Taranto, il rischio della beffa è concreto per le quasi mille parti civili costituite nel processo “Ambiente svenduto” come vittime dell’ex Ilva. La sentenza della Corte d’assise, infatti, oltre ai 280 anni di carcere inflitti agli imputati, tra i quali Fabio e Nicola Riva e l’ex presidente della Puglia, Nichi Vendola, ha stabilito anche le somme che gli imputati dovranno versare immediatamente alle parti civili, in attesa che la sentenza diventi definitiva e su quella venga avviato un processo civile che possa quantificare l’ammontare del risarcimento. Una sorta di anticipo che si aggira complessivamente intorno agli 8 milioni di euro, ma per capire come andrà a finire, basta studiare la storia recente di un vecchio processo che vide condannato definitivamente Emilio Riva, l’ex patron dell’acciaio scomparso nel 2014. In quella sentenza, la Cassazione impose a Riva di risarcire alcuni abitanti del quartiere Tamburi – il più vicino all’acciaieria ed esposto alle polveri inquinanti – e Legambiente per i danni patiti.

La parte emblematica di questa storia comincia il 30 aprile 2014, giorno della morte di Riva senior. In quel momento, il valore dei beni a lui direttamente intestati è di circa 3 milioni di euro: una cifra ragguardevole che, tuttavia, nessuno dei suoi familiari vuole accettare perché su Riva pende un provvedimento in sede civile con una maxi richiesta di risarcimento: solo il Comune di Taranto, infatti, chiede danni per 3 miliardi. A sorpresa, però, dopo il periodo di latitanza e di detenzione, è Fabio Riva ad accettare l’eredità del padre. Quando però i legali delle vittime chiedono aggiornamenti al Tribunale di Varese scoprono che il piccolo tesoro del capostipite è scomparso. Dai due conti correnti sui quali erano stati individuati inizialmente poco meno di 250mila euro, titoli azionari per qualche milione e infine un elenco di 14 fabbricati, sparisce tutto. Non resta nemmeno un euro e all’avvocato Massimo Moretti che chiede conto di immobili e quote societarie, il curatore dell’eredità nominato dal Tribunale di Varese risponde che era stato un errore. Emilio Riva, insomma, non aveva né beni né titoli. Niente. Moretti e gli altri avvocati delle vittime avviano un pignoramento contro Fabio Riva, ma riescono a sequestrare solo un pianoforte, un attrezzo da palestra e addirittura un’affettatrice. Un valore ridicolo per una beffa enorme.

Lo stesso rischio ora aleggia sulle mille parti civili che hanno affrontato il processo e per i quali la Corte d’assise di Taranto ha stabilito il pagamento di una provvisionale compresa tra 5 e 100mila euro a testa. Soldi che, come accaduto per la vicenda di Emilio Riva, rischiano di non arrivare.

Ma non è l’unica beffa per chi vive a pochi metri dalla fabbrica o, peggio, continua a lavorarci. La sentenza di “Ambiente svenduto” di lunedì, infatti, ha confermato al termine del primo grado che le emissioni nocive di Ilva hanno generato tra il 1995 e il 2012 “effetti di malattia e morte” nella popolazione. Ma, per quanto rispetto agli anni scorsi la situazione sia migliorata, la popolazione di Taranto oggi non è affatto al sicuro. A dirlo è stato il Tar di Lecce che ha ordinato lo spegnimento dei reparti dell’area a caldo, su richiesta del sindaco Rinaldo Melucci, perché ancora pericolosi per i tarantini. La palla, com’è noto, è passata al Consiglio di Stato chiamato a decidere se confermare o meno l’ordine di stop imposto dai giudici salentini. Nella loro sentenza, i magistrati amministrativi del Tar di Lecce avevano spiegato che i cittadini vivono in un “stato di grave pericolo” causato dal “sempre più frequente ripetersi di emissioni nocive ricollegabili direttamente all’attività del siderurgico”. Non un fenomeno legato alla passata gestione, ma “permanente ed immanente”.

Uno studio aggiornato ai dati di mortalità al 2020 ha certificato che i livelli di mortalità hanno raggiunto livelli inquietanti: dai risultati presentati lo scorso 30 aprile al convegno dell’Associazione Italiana di Epidemiologia, emerge ancora una volta come i quartieri Tamburi, Paolo VI e Città vecchia-Borgo, quelli geograficamente più vicini alle ciminiere dello stabilimento siderurgico, “soffrono di eccessi di mortalità” sia rispetto ad altre zone della città che ad altre zone della Regione Puglia. “Il dato peggiore che emerge – si legge nel documento che il sindaco Melucci ha inviato a diversi Ministeri – è il netto aumento di mortalità negli uomini del quartiere Paolo VI, specialmente negli ultimi 2 anni, con eccessi di mortalità significativi, pari al 68 per cento. E del resto sui balconi del quartiere Tamburi e sulle tombe del cimitero che si trova a pochi metri dai camini, continua ancora oggi a depositarsi la polvere rosa che si solleva dalla fabbrica e che ha condannato per anni i cittadini di Taranto.

Ma la beffa continua soprattutto per chi in quella fabbrica lavora. La sentenza del Tar ha anche chiarito che le emissioni nocive tra agosto 2019 e febbraio 2020 erano state causate da “malfunzionamento tecnico, difettosa attività di monitoraggio e di pronto intervento” e da “criticità nella gestione del rischio e nel sistema delle procedure di approvvigionamento di forniture”. L’allarme sulle drammatiche condizioni degli impianti tutti i sindacati metalmeccanici lo hanno puntualmente denunciato negli ultimi due anni arrivando a parlare di “una situazione impiantistica che rischia il collasso qualora si dovesse continuare con un regime di produzione di ghisa negli altiforni al di sotto del minino tecnico”. Del resto era stata la stessa Lucia Morselli, ad di ArcelorMittal, nel novembre del 2019 a definire “criminali” le condizioni dell’area a caldo dell’ex Ilva, salvo poi affermare che tutti gli italiani dovrebbero essere “orgogliosi” dello stabilimento ex Ilva: “Il più bello d’Europa, il più moderno, il più potente. Un impianto che tutti ci invidiano. Credo sia un privilegio lavorare lì”. Dal 2012 a oggi sono ben nove gli operai morti nella fabbrica che tutti ci invidiano. Gli incidenti non si contano neppure più.

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