Focus. Trent’anni di errori

Da Enimont in poi: come l’Italia perse i suoi vaccini

Spezzatino. La Sclavo era un’eccellenza, eppure fu ceduta (anche dai Marcucci) a gruppi esteri

5 Marzo 2021

Nonostante una storia plurisecolare sulle terapie di immunizzazione, nella corsa ai vaccini contro il Covid19 l’Italia parte dalle retrovie. Il Paese sconta decenni di assenza di una politica industriale di settore e il disastro Enimont che negli Anni 90 portò allo spezzatino e poi alla cessione a Big Pharma del leader nazionale, la senese Sclavo.

Secondo l’ultimo rapporto MI4A dell’Oms, nel 2019 il mercato globale dei vaccini è stato di 5,5 miliardi di dosi per 33 miliardi di dollari, il 2% del fatturato mondiale della farmaceutica. I principali produttori sono le multinazionali Sanofi, Gsk, Merck e Pfizer e l’Istituto sierologico dell’India. Oggi in Italia la farmaceutica occupa circa 80mila dipendenti che arrivano a 150mila circa con l’indotto, ma la produzione di vaccini non svetta anche se nell’ultimo decennio secondo Farmindustria ha realizzato un surplus commerciale di 2,9 miliardi.

Eppure come ricorda il ricercatore Enrico Ioseffi già nel 1755 l’Accademia delle scienze senese dei Fisiocritici iniziò a discutere e a praticare l’inoculazione contro il vaiolo. Proprio a Siena Achille Sclavo, professore di Igiene e poi rettore dell’Università locale, nel 1904 fondò l’Istituto Sieroterapico Vaccinogeno Toscano. L’azienda nel 1959 attrasse Albert Sabin, inventore del vaccino contro la poliomelite che rinunciò al brevetto. Il centro ricerche fu fondato dal 1970. Nel 1976 la Sclavo fu assorbita dal gruppo Eni. Dopo una joint venture con Dupont, nel 1988 dalla fusione tra Enichem e Montedison del gruppo Ferruzzi-Gardini nasceva Enimont alla quale Eni portava in dote il 50% della Sclavo. Ma il 30 luglio 1990, dopo il fallimento dell’operazione Enimont, la Sclavo fu acquisita dal gruppo Marcucci per 100 miliardi. A gennaio 1992 la Sclavo venne smembrata in tre tronconi: gli emoderivati restano ai Marcucci, i vaccini vengono ceduti per 77 miliardi a Biocine, joint venture tra la svizzera Ciba-Geigy e la statunitense Chiron, e la diagnostica nel 1996 viene venduta alla Bayer per 56 miliardi. Nel ’96 Ciba-Geigy si fuse con Sandoz dando vita al nuovo colosso svizzero Novartis.

Nel ’97 Sclavo lanciava il vaccino antinfluenzale Fluad e nel ’98 si specializzava in quelli contro la meningite B. Dal 2006 al 2015 Novartis investì 400 milioni nell’impianto senese di Rosìa, con 2.800 dipendenti, ma nel 2014 cedette i vaccini al colosso britannico GlaxoSmithKline (Gsk). Nel 2015 Gsk vendette i vaccini antinfluenzali italiani alla Seqirus di Monteriggioni, controllata dell’australiana Csl. Gsk nel 2015-2019 comunque ha investito in ricerca e sviluppo a Siena 457 milioni sotto la guida del professor Rino Rappuoli. La multinazionale ha scelto di non sviluppare un proprio vaccino anti Covid ma di collaborare con la francese Sanofi Pasteur e la tedesca Curevac.

È del 2 marzo l’accordo tra ministero dello Sviluppo economico, Regione Toscana, Toscana Life Sciences Sviluppo e Invitalia per investire 38 milioni per lo sviluppo a Siena di anticorpi monoclonali contro il Covid. Ieri il ministro Giorgetti ha dichiarato che “l’industria italiana è in grado di dare il suo contribuito alla risposta europea per produrre vaccini”. Ma gli esperti mettono in guardia dalle scorciatoie. Secondo il sindacato aziendale della Sclavo, “la straordinaria capacità produttiva del sito di Rosia non è sfruttata: le linee di infialamento potrebbero confezionare circa 30 milioni di dosi di vaccino anti Covid al mese”. Aldo Zago, responsabile della chimica farmaceutica per la Filctem Cgil nazionale, ricorda però che per produrre vaccini anti Covid “la questione non è tanto la disponibilità di strutture di infialamento ma la possibilità di produrre il principio attivo. Non basta pensare alla costruzione di un bioreattore, serve una filiera con tecnologie e sistemi integrati di produzione controllati”.

Da anni Emanuele Montomoli, ordinario di Salute pubblica all’Università di Siena, fondatore e Chief Scientific Officer della società di ricerca Vismederi, sottolinea “la necessità di mantenere in Italia non solo la produzione di vaccini antibatterici ma anche antivirali come questione di sicurezza nazionale. Poiché avviare un processo produttivo richiede investimenti e tempo, è meglio pensare ad accordi strategici con i produttori internazionali che consenta di far arrivare in Italia il vaccino e poi infialarlo sul territorio nazionale. Catalent, Corden Pharma, Irbm e Menarini offrono già questo servizio”. Montomoli ritiene che “il Covid19 diventerà una malattia endemica come l’influenza. Per eradicarlo serviranno probabilmente decenni. Dunque i vaccini occorreranno a lungo”.

Stefano Malvolti, fondatore e dirigente della MM Global Health Consulting di Zurigo, afferma che “a livello industriale oggi in Italia la capacità di produzione sui vaccini per varie malattie virali si concentra su molte imprese biotech che producono su proprie piattaforme tecnologiche. Uno dei primi vaccini contro l’ebola era stato sviluppato a Napoli dalla Okairos, poi comprata da Gsk. Per incrementare la capacità produttiva adeguatamente verificata per produrre in Italia il vaccino anti Covid-19 serviranno dai sei mesi a un anno almeno, servono accordi internazionali per accedere a brevetti e tecnologie di terzi, senza alcuna garanzia di successo. Tra 12 mesi servirà ancora una produzione locale nazionale di vaccino anti Covid o la capacità produttiva globale sarà più che sufficiente?”.

Tania Cernuschi, responsabile per l’accesso globale ai vaccini che dirige il dipartimento di Immunizzazione all’Oms, ricorda che “solo ora a causa della pandemia l’Italia scopre la questione della possibile produzione di vaccini a livello locale ma per altri Paesi e interi continenti come l’Africa è un tema di discussione purtroppo normale. Già il 24 maggio 2019 l’Oms e altre agenzie Onu hanno preso una posizione comune sulla promozione di produzioni locali di medicine e altre tecnologie sanitarie. Forse è meglio avere un approccio europeo o globale alla questione del trasferimento delle tecnologie e dell’aumento della produzione. Altra cosa è invece il tema della preparedness, la predisposizione di una struttura operativa di pronto intervento da attivare in caso di necessità se ci saranno nuove pandemie virali. Un tema di sicurezza nazionale che non riguarda solo l’Italia e non solo il Covid, ma che solleva questioni di sostenibilità ed efficienza”.

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